domenica 31 gennaio 2016

Joy

anno: 2015       
regia: RUSSELL, DAVID O. 
genere: biografico 
con Jennifer Lawrence, Robert De Niro, Bradley Cooper, Edgar Ramirez, Diane Ladd, Virginia Madsen, Isabella Rossellini, Dascha Polanco, Elisabeth Röhm, Susan Lucci, Laura Wright, Maurice Benard, Donna Mills, Jimmy Jean-Louis, Ken Howard, Ray De La Paz, John Enos III, Marianne Leone, Melissa Rivers, Drena De Niro, Isabella Crovetti-Cramp, Emily Nunez, Madison Wolfe, Aundrea Gadsby, Gia Gadsby, Tomas Elizondo, Zeke Elizondo, Alexander Cook, Lori McCoy-Bell, Suzanne Frazier Wilkins, Luisa Maria Badaracco, Jamell Washington, Gary Tolchin, Will Le Bow, Johnnie McQuarley, Pedro Martinez Campos, Carlos Sala Valencia, Alvaro Benavides, Edgar Pantoja Aleman, Shonda Schilling, Grant Schilling, Gary Zahakos, Josef Boreland, Pedro Sabino, Mateo Gómez, Marcela Jaramillo, Jim Frangione, Melissa McMeekin, Erica McDermott, Carla Antonino, Michele Egerton, Marianne Bayard, Fiore Leo, Steven DeMarco, Collin Knight, Barbara Feeney, Damien Di Paola, Patsy Meck, Jeremiah Kissel, Dale Place, Mitchell Rosenwald, Thomas Matthews, Matthew Russell, Bates Wilder, Paul Herman, Christy Scott Cashman, Colleen Camp, Richard McElvain, Mark Nemeskal, Patrick Pitu, Michael DeMello, Ken Cheeseman, Daniel Bowen, Naheem Garcia, Raymond Alongi, Johnny Lee Davenport, Sonny Mirabella, Bill Thorpe, Sam Weisman, Jeff Avigian, Barry Primus, Eliana Adise, Calidore Robinson, Jasmine Brooke White    
location: Usa
voto: 6 

Fin da bambina Joy Mangano (Lawrence) dimostra grande fantasia e pragmatismo: inventa e ripara di tutto, ha delle buone idee e determinazione. Peccato che nella famiglia disfunzionale nella quale vive - una madre (Madsen) perennemente incollata allo schermo televisivo a guardare soap operas, un padre (De Niro) separato e babbeo a caccia di dote e una sorellastra virago - nessuno creda nei suoi progetti. Fino a quando Joy non inventa un modo rivoluzionario per pulire la casa: il mocho. La nuova compagna del padre (Rossellini) ne finanzia l'affare, un ambiguo agente televisivo (Cooper), dopo molte resistenze, ne vede schizzare alle stelle gli ordini, ma la donna nel frattempo viene frodata, defraudata e rimane vittima di peculato. A credere in lei resteranno soltanto il suo ex marito (Ramirez) e la sua migliore amica.
Alla sua terza regia con la terna Lawrence-Cooper-De Niro (dopo Il lato positivo e American Hustle), il regista David O. Russell racconta la più trita e fiabesca variazione sul Sogno Americano ispirata alla vera storia di Joy Mangano e ambientata nella Long Island dei primi anni '90, tra televendite e la voce off di una nonna che è l'unica presenza affettuosa nella vita della protagonista. La quale, come al solito, è completamente inespressiva, perennemente imbronciata e al servizio di un plot zuccheroso sul mito dell'imprenditore incompreso (siamo dalle parti di Tucker e Flash of genius), non privo di svolazzi onirici, ma capace di assorbire l'attenzione dello spettatore nonostante i personaggi siano poco più che caricature.    

venerdì 29 gennaio 2016

My Son, My Son, What Have Ye Done

anno: 2010       
regia: HERZOG, WERNER
genere: poliziesco
con Michael Shannon, Willem Dafoe, Chloë Sevigny, Udo Kier, Michael Peña, Grace Zabriskie, Irma Hall, Loretta Devine, Brad Dourif, Udo Kier, Verne Troyer, Braden Lynch    
location: Perù, Usa
voto: 3,5

Brad Macallam (Shannon) è un tipo strano. Alleva nel giardino di casa due fenicotteri rosa, fa parte di una compagnia teatrale che recita tragedie greche e ogni tanto la sua voce interiore, come in occasione di una vacanza in Perù, gli dà suggerimenti bislacchi. Ma la vera illuminazione arriva quando il matricidio inscenato nella pièce teatrale che sta provando si concretizza in casa e l'uomo uccide la madre (Zabriskie) con una spada. La polizia interviene, circonda l'abitazione dove Brad si è barricato, negozia con l'uomo. Il vicinato assiste attonito.
Sgangherato, sconclusionato, con la (falsa) pretesa di offrire allo spettatore il quadro dell'ineffabilità della follia, con Michael Shannon prestato per l'ennesima volta all'unico stereotipo che i registi sembrano disposti a concedergli (Revolutionary road, 13 - Se perdi muori, Take Shelter, Senza freni, The iceman): questo è My Son, My Son, What Have Ye Done. Un film di totale piattezza narrativa, privo di suspense, a tratti grottesco (si pensi all'irruzione del nano sul set o alle riprese in Asia), coprodotto da quell'altra mente sghemba di David Lynch e ispirato a una storia vera. Ma la trasferta statunitense di Herzog è soprattutto l'ennesima prova che il talento dell'ex enfant prodige del nuovo cinema tedesco si è ulteriormente sbiadito.    

domenica 24 gennaio 2016

La corrispondenza

anno: 2015       
regia: TORNATORE, GIUSEPPE
genere: drammatico
con Jeremy Irons, Olga Kurylenko, Simon Johns, James Warren (II), Shauna MacDonald, Oscar Sanders, Paolo Calabresi, Simon Meacock, Florian Schwienbacher, Irina Karatcheva, Darren Whitfield, Patricia Winker, Marc Forde, Ian Cairns, Daphne Mereu    
location: Italia, Regno Unito
voto: 1

A Puppuccio Tornatore va riconosciuta la capacità di pensare quasi sempre in grande, di proporre film con ambizioni da cinema internazionale (Una pura formalità, La leggenda del pianista sull'Oceano, La sconosciuta, La migliore offerta), di riuscire a osare anche quando i mezzi a disposizione non sono faraonici. In più, gira e dirige come pochi altri della sua generazione sanno fare. È per questo che ogni suo film rappresenta sempre un appuntamento obbligato. Ma ogni tanto svirgola. Se Malena, il suo film più inguardabile, serviva a coniugare il fascino da aringa della Bellucci con le ambientazioni strapaesane a lui tanto care (da Nuovo Cinema Paradiso a Baaria, passando per L'uomo delle stelle), nel caso de La corrispondenza la posta in gioco sembra essere ancora più alta: cast internazionale, location suggestive (la Scozia e il Lago d'Orta), trama innervata da elementi tecnologici che al profano potrebbero apparire quasi fantascientifici, dialoghi sui massimi sistemi, con le stelle a fare da sponda. Eppure da La corrispondenza - storia d'amore tra un maturo (molto maturo) professore di astrofisica (Irons) e una giovane studentessa universitaria, stunt a tempo perso (Kurylenko) - intercetta soltanto gli elementi più deteriori del cinema del regista siciliano: la propensione al polpettone (come in Stanno tutti bene, L'uomo delle stelle e Baaria), quella alla magniloquenza della scrittura, i buchi di sceneggiatura con molti passaggi criptici o improbabili (come in Una pura formalità). In questo mystery a sfondo sentimentale tutto va oltre il ridicolo: dalla recitazione dei due protagonisti (Olga Kurylenko, già vista in Quantum of solace e Perfect day, è una presenza ancora una volta puramente ornamentale; Jeremy Irons raggiunge il massimo dell'espressività quando recita di spalle; i comprimari sembrano presi di peso dalla sceneggiatura de I soliti idioti) alla sciatteria della messa in scena. Ma l'abisso viene raggiunto dai dialoghi, che provano a far vibrare le corde della filosofia miscelando banalissime riflessioni sugli astri e faccende amorose. Sicché l'originale spunto di partenza da fiaba tecno, con il professore che, dopo un'unica scena iniziale nella quale lo si vede in compagnia della sua amata, continua a par pervenire a quest'ultima messaggi, doni e mail per molto tempo dopo la sua scomparsa, si perde completamente in un pasticciaccio inguardabile, bolso, ridicolo, prolungato allo spasimo.    

venerdì 22 gennaio 2016

Se permettete parliamo di donne

anno: 1964   
regia: SCOLA, ETTORE 
genere: commedia a episodi 
con Vittorio Gassman, Maria Fiore, Donatella Mauro, Mario Lucidi, Giovanna Ralli, Umberto D'Orsi, Antonella Lualdi, Sylva Koscina, Dante Maggio, Edda Ferronao, Ivy Holzer, Emma Baron, Olga Romanelli, Rossana Gherardi, Walter Chiari, Heidi Stroh, Eleonora Rossi Drago, Mario Brega, Jeanne Valérie, Enzo Maggio, Attilio Dottesio, Marco Tulli, Riccardo Garrone    
location: Italia
voto: 6,5 

Dopo le tante prove come sceneggiatore (per Fellini, Pietrangeli, Zampa, Risi e moltissimi altri), Ettore Scola esordisce in cabina di regia con una commedia a episodi che, nel riprendere il modulo di successo ottenuto con I mostri, sbeffeggia le molte sfaccettature del maschio italiano alle prese con il gentil sesso. Si parte con una donna meridionale superstiziosa e credulona che finisce a letto con l'amico del marito percependo un'inesistente minaccia con la lupara. Il secondo episodio, il migliore, mette in campo un Peter Pan  nullafacente che, tornato a casa, finge con la moglie chissà quale faticosa giornata lavorativa. Nel terzo episodio una donna si prostituisce a domicilio, senza che il marito capisca nulla. Nel quarto una coppietta non riesce ad appartarsi per le troppe fisime di lei. Nel quinto un barista che stacca in piena notte riesce sempre a trovare il modo per farsi riaccompagnare a scrocco alla periferia di Roma. Nel sesto episodio una ragazza confida nella determinazione del fratello per ottenere un matrimonio riparatore. Nel settimo episodio una signora della Roma bene approfitta di uno straccivendolo aitante. Nell'ultimo episodio una donna fa carte false pur di far credere di essere rimasta incinta del marito che sta in galera da un pezzo.
A distanza di anni il film, servito da un Gassman proteiforme e più mattatore che mai, conserva vitalità e freschezza. Qualche episodio rasenta il cinebarzelletta, ma nel complesso i diversi segmenti si aprono a un vasto ventaglio di tematiche trattate con vis satirica e gli spunti comici non mancano.
L'anno seguente Lina Wertmüller avrebbe "risposto" con Questa volta parliamo di uomini.

mercoledì 20 gennaio 2016

Jannacci, lo stradone col bagliore

anno: 2015   
regia: SODI, RANUCCIO  
genere: documentario  
con Enzo Jannacci, Paolo Jannacci, Luciano Bianciardi, Luigi Pistilli, Massimo Boldi, Nando De Luca, Serena Dandini, Dario Fo, Dino D'Autorio, Giorgio Gaber, Gianni Rivera, Lino Toffolo, Romano Frassa, Riccardo Piferi, Ranuccio Sodi, Diego Abatantuono, Ernst Thole, Giorgio Porcaro, Giorgio Faletti, Mauro Di Francesco, Guido Nicheli, Teo teocoli, Bruno Filippi, Gianrico Tedeschi, Cochi Ponzoni, Renato Pozzetto, Osvaldo Ardenghi, Gilberto Zilioli, Mark Harris, Vasco Rossi, Luigi Tenco, Paolo Rossi, Dario Vergassola, Pupa Orefice Jannacci, Mauro Pagani    
location: Italia
voto: 4  

Voi lo conoscete Ranuccio Sodi? Lo avete mai sentito nominare? Per me è noto quanto potrebbe esserlo, che so, Cipriano Pancrazio Oberti. Con quel nome che sembra uscito dalla fantasia di un Pontiggia o di un Guareschi. No, perché a guardare Lo stradone col bagliore (da un brano rimasto inedito) sembra che lui, Ranuccio, sia stato per una vita (o quasi) l'angelo custode di Enzo Jannacci. Il documentario che il nostro ha dedicato al poliedrico cantautore milanese, attore ma anche medico, showman, comico, è tutto declinato in senso egolalico. Ed è un peccato che a due anni dalla scomparsa del musicista meneghino non si sia riusciti (finora) a fare di più per ricordarlo. Il film assembla - con tediosissima voce off - materiali d'archivio, anche inediti, considerazioni personali (del fegista-factotum) e spezzoni di un'intervista che Jannacci, visibilmente malmesso, rilasciò nella sua casa milanese, con voce più biascicata del solito e mise da senzatetto, il tutto su un tappeto acustico disturbato da rumori di fondo degni di un principiante dell'ingegneria del suono. Davanti a tanta pochezza di mezzi espressivi, quelle canzoni un po' da guitto e un po' beffarde, uasi sempre geniali e irriverenti che scrisse Jannacci ne vengono mortificate, sicché pietre miliari come Son sciopàa, Ci vuole orecchio, Se me lo dicevi prima, Quelli che…, Vengo anch'io, Silvano o la meno conosciuta Parlare con i limoni si perdono nella confusione dell'intera operazione.    

domenica 17 gennaio 2016

Revenant - Redivivo

anno: 2015       
regia: GONZALEZ INARRITU, ALEJANDRO  
genere: avventura  
con Leonardo DiCaprio, Tom Hardy, Domhnall Gleeson, Will Poulter, Forrest Goodluck, Paul Anderson, Kristoffer Joner, Joshua Burge, Lukas Haas, Brendan Fletcher, Duane Howard, Arthur RedCloud, Grace Dove, Fabrice Adde, Robert Moloney, Christopher Rosamond, Tyson Wood, McCaleb Burnett, Timothy Lyle, Scott Olynek, Melaw Nakehk'o    
location: Usa
voto: 9  

Alejandro González Iñárritu, o l'imprevedibile virtù del talento. Ci aveva lasciati con un film (Birdman) tutto in piano sequenza, quasi interamente girato in interni, con dialoghi fittissimi e adesso ci consegna il suo opposto: i vastissimi territori del Canada e della terra del Fuoco, dove Revenant è stato girato (ma nella finzione siamo nel Missouri del 1820), costantemente innevati, e un protagonista (DiCaprio) che, poco dopo avere subito insieme ai suoi compagni un micidiale attacco da parte dei ferocissimi indiani Arikara, viene attaccato da un grizzly. Il comandante (Gleeson) che sta guidando i suoi nei boschi americani alla ricerca di pellame vorrebbe dargli degna sepoltura, convinto in buona fede che stia per scoccare l'ora di quell'uomo che è anche la guida del gruppo. Ma Fitzgerald (un Tom Hardy strepitoso), compagno di avventura avidissimo, pur dovendo vigilare sul suo capezzale lo seppellisce vivo e gli ammazza il figlio mezzosangue davanti agli occhi. Il resto è storia di una sopravvivenza impossibile, della sfida di un uomo che, contro le avversità della natura, sopravvive grazie a un'inesauribile sete di vendetta.
Che Iñárritu avesse un estro cinematografico debordante non è una novità. Ma in quest'occasione lo ribadisce anche grazie alle straordinarie riprese di Emmanuel Lubezki, capace di passare dalla macchina a mano in piano sequenza a panoramiche mozzafiato. Se la forma, ancora una volta, è soprendente senza essere mai di maniera, i contenuti rimandano a un'epica della conquista del west con un sottotesto che non si lascia scappare l'occasione per ricordare chi furono i veri invasori (e non dimentichiamo che Iñárritu è messicano). Tra survival e revenge-movie, Revenant parte da una storia vera (raccontata nel romanzo omonimo di Michael Punke) per mostrarci l'inutilità della vendetta in uno scenario niveo sul quale DiCaprio, trapper immarcescibile, fornisce la prova più fisica della sua carriera, tra pernottamenti all'interno della carcassa di un cavallo morto (forse la scena più dura del film), la barba lunga e ispida, il corpo lacerato, lo sguardo iniettato di sangue: una prova che l'Academy non potrà non premiare con il primo Oscar a uno degli attori più straordinari di tutti i tempi.    

venerdì 15 gennaio 2016

David Bowie - Five years

anno: 2013   
regia: WHATELY, FRANCIS 
genere: documentario 
con David Bowie, Rick Wakeman, John Harris, Ken Scott, Mick Ronson, Charles Shaar Murray, Trevor Bolder, Angie Bowie, Camille Paglia, Ava Cherry, Carlos Alomar, Luther Vandross, Nelson George, Robin Clark, Geoff MacGormack, Russell Harty, Earl Slick, Dennis Davis, Brian Eno, Tony Visconti, Robert Fripp, David Mallet, Nile Rodgers, Carmine Rojas    
location: Germania, Regno Unito, Usa
voto: 7 

Five years è una delle più celebri canzoni di David Bowie, artista poliedrico, spiazzante, innovativo. E cinque sono anche gli anni sui quali si concentra questo riuscitissimo documentario di Francis Whately, che su quella cinquina di punti cardine imbastisce la ricostruzione della traiettoria umana e artistica del protagonista. Il primo è l'anno tra il 1971 e il 1972, quello delle provocazioni di Hunky Dory, dell'accentuazione dell'ambiguità sessuale appena dopo aver pubblicato un disco nel quale compare vestito da donna à la Lauren Bacall, e del suo nuovo alter ego, Ziggy Stardust, a confermare, con Starman, la vena "spaziale" della sua arte dopo brani come  Life on mars e Space oddity. E poi l'entrata nella factory di Andy Warhol, la fama mondiale, i concerti sold out, le droghe. Il secondo anno è quello a cavallo tra il '74 e il '75, quello della svolta tra rhythm'n'blues, funky e disco, con la regia di Tony Visconti, la collaborazione di John Lennon (Fame e Across the universe) e la chitarra di Carlos Alomar, sempre sorridente davanti alla cinepresa. È l'anno della popolarità assoluta, raggiunta con Young americans, mentre gli eccessi della cocaina lo portano a pesare 45 chili. E ancora una metamorfosi, l'alter ego che gli rimarrà incollato più a lungo: quello del Duca Bianco. Con esso, l'ennesimo ondeggiamento dal soul bianco del disco precedente al funky e al krautrock di Station to station. Ormai raggiunto l'apice della popolarità mondiale, Bowie spiazza per l'ennesima volta (e sarà tutt'altro che l'ultima) pubblico e critica chiamando a sé quei due geni mattacchioni di Robert Fripp e Brian Eno. Da lì parte la cosiddetta "trilogia berlinese" (1977). Chiunque altro, al suo posto, avrebbe cavalcato l'onda della popolarità planetaria. Lui no. Lui sterza bruscamente verso una musica fortemente avanguardistica, facendo storcere il naso a frotte di giornalisti costretti, a distanza di anni, a cospargersi il capo di cenere. Quarto anno: 1979-1980. sugli scaffali dei negozi di dischi arriva Scary monsters, l'album che contiene Ashes to ashes e Fashion, ma l'insaziabile fame di espressione artistica di Bowie non si ferma e così, dopo avere interpretato al cinema la parte di un alieno per Nicolas Roeg (L'uomo che cadde sulla terra), stupisce tutti con una performance teatrale da brividi, mettendo il suo corpo esilissimo a servizio di un personaggio difficile come Elephant man, al quale regala una memorabile invenzione vocale. Siamo all'ultimo anno, il 1982/83 e Bowie vuole dire la sua anche sulla dance. Quale scelta migliore, allora, di un album che si intitola, programmaticamente, Let's dance? La carriera della popstar britannica, lo sappiamo, è andata avanti, sempre spiazzante, facendo spallucce alle richieste di mercato e carta stampata. E il documentario - tra un impressionante corredo di immagini di repertorio spesso inedite, interviste davvero memorabili che raccontano la genesi di alcune canzoni e il clima in studio (imperdibili gli interventi di Rick Wakeman sulle trovate geniali di Bowie nella composizione di Life on Mars e le risposte esilaranti di Fripp) - restituisce un ritratto a tutto tondo che non scade nell'agiografia e che si conclude all'indomani dell'ennesima trovata imprevedibile del Duca Bianco, sparito dalla circolazione nel 2007 e che, dopo la pubblicazione di The next day, nel 2013, non rilascia neppure un'intervista. "Abbiamo una bella vita", gli mormora la moglie mentre si trovano al supermercato. "Sì, abbiamo una bella vita".    

sabato 9 gennaio 2016

La grande scommessa (The Big Short)

anno: 2015       
regia: McKAY, ADAM
genere: drammatico
con Christian Bale, Steve Carell, Ryan Gosling, Brad Pitt, Melissa Leo, Hamish Linklater, John Magaro, Rafe Spall, Jeremy Strong, Marisa Tomei, Finn Wittrock, Karen Gillan, Selena Gomez, Lyle Brocato, Vanessa Cloke, Rudy Eisenzopf, Peter Epstein, Max Greenfield, Jeffry Griffin, Jay Jablonski, Rajeev Jacob, Blaine Kern III, Tyler Kunkle, Colin Lawless, Byron Mann, Rhonda McNeely, Wayne Pére, Al Sapienza, Ilan Srulovicz, Charlie Talbert, Stanley Wong, Tracy Letts, Billy Magnussen    
location: Usa
voto: 8

Merda. È la parola più ricorrente di questo film che, fidatevi, i posteri vedranno e rivedranno per capire cosa sia stata e come sia nata la crisi finanziaria del 2008. Merda sono i subprime, i CDO, le tranches, gli swap, i derivati e tutti quei titoli tossici che, partiti per spingere la richiesta di mutui nel mercato immobiliare, hanno poi provocato quella deflagrazione colossale del debito che ha innescato la Grande Crisi del 2008. Nati da un'intuizione di un maneggione della finanza 30 anni prima, questi titoli tossici sono la prova provata della deriva del capitalismo finanziario, che attraverso di essi ha creato una distanza interstellare tra economia reale ed economia immateriale. Merda, appunto. puri trucchetti di fantasia. Una frode. La grande scommessa è il film che, rispetto all'ottimo Margin call (o al meno valido The wolf of Wall Street o, ancora, al documentario Inside job), racconta questa storia oscena dalla parte di un nugolo di "vincitori" che ci aveva visto lungo e che sapeva che la bolla finanziaria legata al mercato immobiliare prima o poi sarebbe esplosa. Ad arricchirsi più di tutti fu un ex medico eterodosso (Bale: strepitoso), uno mezzo autistico e con un occhio di vetro, uno che in ufficio cammina scalzo, ascolta soltanto musica heavy metal e suona la batteria per sfogarsi. Nessuno gli crede quando è deciso a scommettere contro quello stesso sistema del quale fa parte, fino a quando - dopo le prime, apparenti disfatte - non arriva a rastrellare quasi due miliardi di dollari.
Diretto da un regista sul quale, è il caso di dirlo, non avresti scommesso un soldo, e che finora all'attivo aveva soltanto commediole con Will Farrell, La grande scommessa è un film sontuoso non solo per la precisione chirurgica con la quale riesce a raccontare un periodo storico epocale (quello compreso tra il 2005 e il 2008), ma anche per la forma innovativa con la quale lo mette in scena. Efficacissimo nel rendere il gioco di contrasti tra i colletti bianchi di Wall Street che si sfregano le mani in vista delle loro vincite milionarie e il popolo bue che continua a far festa senza sapere quale macigno gli pioverà sul capo. Spiazzante nell'incapsulare all'interno del racconto degli inserti con alcuni personaggi noti al grande pubblico che spiegano alcuni passaggi cruciali. Originale quando mette gli attori nelle condizioni di caracollare tra realtà e finzione, parlando improvvisamente in macchina e svelando il backstage del racconto, mettendo a nudo quanto c'è di inventato per rendere la forma (ma non la sostanza) della storia più accattivante. Un film che farà epoca. Ci scommetto.    

venerdì 8 gennaio 2016

Barbieri d'Italia

anno: 2015   
regia: RANIERI MARTINOTTI, FRANCESCO   
genere: documentario   
con Paolo Zanelli, Luigi Chiocca   
location: Italia
voto: 7   

Giovani e anziani, settentrionali e meridionali, maschi e femmine, per professione o per atto volontario: li intercetta proprio tutti, con una scelta campionaria che ha quasi del miracoloso, questo sorprendente documentario di Francesco Ranieri Martniotti, regista dal pedigree non proprio di razza (tra gli altri, Branchie, con Gianluca Grignani, e poi un paio di film con Alessandro Siani) su uno dei mestieri più antichi e resistenti: quello del barbiere. Tra note suonate con la fisarmonica, la colonna sonora impeccabile di Puccio Pucci e i rimandi obbligati a Figaro, il più famoso barbiere dell'opera, il regista romano, classe 1959, ci porta in giro per tutta la penisola alla scoperta delle moltissime sfaccettature di un mestiere che, a sentire le voci di chi lo pratica, sembra essere quasi sempre frutto di una vocazione consolidata, in alcuni casi, da una lunga tradizione familiare. Riesce così ad appassionarci alle traiettorie più diverse che portano a fare di forbici, pettine e rasoio il proprio lavoro, ci fa addentrare nei suoi piccoli segreti e ne scoperchia il lato più squisitamente sociologico, mostrando quanto potenti possano essere oggi, anche per il sesso forte, i meccanismi identificativi. "Da quando i calciatori hanno cominciato a farsi le strisce sulla testa o altre cose del genere, è diventato sempre più difficile", commenta uno di loro. E allora ecco barbe da hipster, favoriti, mustacchi, capelli che smascherano una vanità maschile ormai alla pari con quella del gentil sesso. Se l'aspetto documentaristico coglie perfettamente nel segno, l'impianto formale non è da meno, tra barbe rasate negli spazi pubblici (le piazze, ma anche le cave dei marmi di Carrara) e l'ingresso in luoghi dove il taglio dei capelli assume un ruolo peculiare: l'accademia dell'aereonautica militare, un convento, un centro di accoglienza per i senzatetto.    

mercoledì 6 gennaio 2016

Jimmy’s Hall - Una storia d'amore e libertà

anno: 2014   
regia: LOACH, KEN
genere: drammatico
con Barry Ward, Simone Kirby, Andrew Scott, Jim Norton, Brían F. O'Byrne, Shane Cullen, Paul Fox, Sorcha Fox, Aisling Franciosi, Karl Geary, Denise Gough, Aileen Henry, Seamus Hughes, Martin Lucey, Chris MacManus, Francis Magee, Conor McDermottroe, Mikel Murfi, Shane O'Brien, Chelsea O'Connor, John O'Dowd, Donal O'Kelly, Rebecca O'Mara, Seán T. Ó Meallaigh    
location: Irlanda, Usa
voto: 6,5

Rientrato nella nativa Irlanda dopo 10 anni di esilio coatto negli Stati Uniti, all'inizio degli anni '30 del Novecento Jimmy Gralton (Ward) riapre la sala nella quale, con un nugolo di volontari determinatissimi, si impartiscono lezioni gratuite di ballo, di canto, di disegno dal vero e di musica. In una comunità bacchettona ancora lacerata da una guerra civile che ha portato ad espropri edilizi e demaniali in barba a qualsiasi regolamentazione, a fare il bello e il cattivo tempo sono l'anziano prete della comunità (Norton) con i suoi scherani, che vedono nell'attività della sala di Jimmy e dei suoi sodali qualcosa di peccaminoso, nella musica gaelica una forma di lussuria e nel jazz che si ascolta là dentro una musica satanica. Pur in minoranza numerica, Jimmy e i suoi combatteranno lealmente la battaglia per i loro diritti senza mai ricorrere alla violenza. Vietato lo spoiler sul finale.
Ancora una volta Ken Loach tocca il tema dell'ingiustizia (Riff raff, Bread and roses, Paul, Mick e gli altri, In questo mondo libero) riportandoci in Irlanda (Il vento che accarezza l'erba) e mostrandoci il volto cieco di un potere leviatanico e sopraffattore attrverso il prisma di un eroe irlandese realmente esistito. Lo fa con il suo stile classico, lineare, senza fronzoli ma impeccabile come sempre, affidandosi a uno stuolo di attori come sempre superbamente diretti, tra i quali spicca la faccia pulita e solare del protagonista. Al suo personaggio e ai suoi comprimari viene affidata la funzione latente di usare la sala come luogo di costruzione dell'identità, mentre il paladino di Cristo e i suoi pretoriani sono occupati a tempo pieno nel tentativo di educare le greggi all'ignoranza, smantellando il sapere. Forse un film minore di Loach, un po' manicheo, ma con un afflato morale come sempre di grande impatto.    

lunedì 4 gennaio 2016

Young Adult

anno: 2012       
regia: REITMAN, JASON
genere: drammatico
con Charlize Theron, Patton Oswalt, Patrick Wilson, Elizabeth Reaser, Collette Wolfe, Jill Eikenberry, Richard Bekins, Mary Beth Hurt, Kate Nowlin, Jenny Dare Paulin, Rebecca Hart, Louisa Krause, Elizabeth Ward Land, Brian McElhaney, Hettienne Park, John Forest, Rightor Doyle, Brady Smith, Timothy Young, Erin Darke, Jee Young Han, Ella Rae Peck, Aleisha Allen, Matt Wilson, Orlagh Cassidy, Charles Techman, Emily Meade, Neil Hellegers, Michael Nathanson    
location: Usa
voto: 5

Mavis Gray (Theron) è bellissima ma non ha tutti i venerdì in ordine. Fresca di divorzio, il suo lavoro da ghostwriter per libri destinati ad adolescenti si traduce in giacenze sugli scaffali delle librerie e il suo gomito è quasi sempre alzato. Per dare un brivido alla sua vita decide così di ritornare nella cittadina del Minnesota dove era vissuta da adolescente, per riprendersi il suo amore di allora (Oswalt) che nel frattempo si è felicemente sposato ed è diventato padre da poco tempo. Ma, a dispetto dell'avvenenza della donna, il suo ex sembra preferirle pannolini e coccarde e l'operazione recupero si traduce in un tragico psicodramma.
Più dramma che commedia, orchestrato come un thriller sentimentale, Young adult costringe lo spettatore a domandarsi quali artifici troverà la protagonista per accalappiare il suo amore di gioventù e a quale scopo. Le risposte si stemperano nella vaghezza di un racconto che sembra incepparsi e che chiama in scena il personaggio di uno storpio, ex compagno di scuola dei due amanti impossibili, al quale spetta il ruolo di grillo parlante. Ma tanto di cappello alla Theron, Monster nevrotica ed erotomane, capace di vestire perfettamente i panni di un personaggio fragile e irrisolto, col quale il regista Jason Reitman (figlio d'arte che già si era fatto apprezzare per Thank you for smoking, Juno e Tra le nuvole) non entra mai in comunicazione affettiva.    

sabato 2 gennaio 2016

Hotel Transylvania

anno: 2012   
regia: TARTAKOVSKY, GENNDY   
genere: animazione   
location: Usa
voto: 6   

Rimasto vedovo, il conte Dracula ha pensato di adibire il castello nel quale vive con la figlia adolescente (ha solo 118 anni!) a hotel per mostri. Tutto sembra andare per il meglio fino a quando nel luogo non si presenta un ragazzino giramondo. Ma poiché, paradossalmente, gli esseri umani sono temutissimi dai mostri, il padrone di casa fa di tutto per nascondere la vera identità del ragazzo ai suoi ospiti e, a maggior ragione, a sua figlia che se ne è innamorata.
Lo spunto contenutistico, che tratta in maniera paradossale i temi del razzismo e del pregiudizio, è accattivante. La realizzazione, sul piano dello sviluppo narrativo, assai meno. I moltissimi mostri che popolano il film - da Frankenstein all'Idra, passando per i Gremlins, l'uomo invisibile, lo yeti e la mummia - sono infatti funzionali a un dispositivo che punta moltissimo sulle potenzialità visive che possono essere sviluppate a partire da ciascuno di essi, rendendo rapsodico un racconto che sembra pieno di cuciture.    

venerdì 1 gennaio 2016

Amy - The girl behind the name

anno: 2015   
regia: KAPADIA, ASIF    
genere: documentario    
con Amy Winehouse    
location: Regno Unito
voto: 3

Personaggio tragico, popstar del soul bianco vocalmente dotatissima ma con un solo minuto di ispirazione in tutta la sua breve vita, Amy Winehouse è morta ad appena 28 anni, nel 2011. Il regista Asif Kapadia - già autore di un documentario dedicato ad Ayrton Senna - rovista tra il moltissimo materiale privato, le riprese domestiche, gli scatti rubati dopo le moltissime notti brave, per confezionare uno dei peggiori documentari di tutti i tempi sulla musica rock. Attratto assai di più dall'aspetto scandalistico che da quello artistico, il regista preme compulsivamente sul pedale delle moltissime esagerazioni della protagonista: alcool, droghe, pomeriggi interi passati a giocare a biliardo o a dormire. Ne esce il ritratto grossolano di un personaggio la cui vita già di per sé non è di alcun interesse, una meteora passata per un attimo nel firmamento della notorietà grazie a un brano come Back to black e pochissimo altro, vincitrice di un gran numero di Grammy Awards e assurta a fama internazionale grazie ai meccanismi sordidi dello show biz. Il quale, nel caso di Amy Winhouse, non può neppure essere additato tra i responsabili principali della sua deriva da tossica bulimica dagli occhi perennemente bistrati, la capigliatura degna di Moira Orfei, il diastema, l'ipertricosi e le gambe sexy quanto quelle di un trampoliere. Semmai, a destare molte perplessità sono il marito Blake Fielder, un dandy drogato e piacione, e, soprattutto, il padre, che abbandonò la famiglia per poi entrare a tempo pieno nello staff della figlia quando fiutò l'affare milionario.
Se dal punto di vista cinematografico il documentario è inesistente, da quello dei contenuti irrita proprio il tentativo di vellicare l'empatia dello spettatore nei confronti di una divetta insulsa, capace soltanto di un pugno di canzoni slabbrate, arrogante, ricchissima e insopportabilmente capricciosa, come quando, sul palco di Belgrado, si rifiutò di cantare. Poi vattela a prendere con i flash dei fotografi…