mercoledì 27 febbraio 2019

Green book

anno: 2018       
regia: FARRELLY, PETER    
genere: commedia    
con Viggo Mortensen, Mahershala Ali, Linda Cardellini, Sebastian Maniscalco, Dimiter D. Marinov, Mike Hatton, P.J. Byrne, Joe Cortese    
location: Usa
voto: 3,5    

Siamo in America, negli anni '60. In gran parte del paese i gabinetti prevedono ancora - quando esiste - un ingresso a parte per la popolazione di colore. A cui appartiene Don Shirley (Ali), pianista di enorme talento, omosessuale, colto, ricco, laureato e alla ricerca di qualcuno che gli faccia da autista in occasione della sua tournée nel sud degli States, dove il razzismo è ancora più pronunciato che nel resto del Paese. Qual qualcuno si chiama Tony Lip Vallelonga (Mortensen). È un italoamericano dai modi ruvidi che fino al giorno prima faceva il buttafuori al Capocabana di New York, menava le mani con facilità e disprezza i neri. Ma la paga è lauta e l'occasione ghiotta. I due si metteranno in viaggio e Tony ne tornerà cambiato.
Il film che ha misteriosamente vinto la statuetta più prestigiosa che l'Academy potesse conferirle replica le assurdità di Moonlight, dimostrando che alcuni premi sono elargiti soltanto su base ideologica. Non che non sia condivisibile la morale del film: tutt'altro. Ma il problema è che Green book (dal nome che all'epoca prendevano quei vademecum che indicavano agli afroamericani a quali luoghi potessero accedere senza problemi) è pieno zeppo di stereotipi (il più fastidioso quello sulla comunità italiana, inevitabilmente mafiosa e mangiaspeghetti) e si basa su uno schema visto e stravisto: quello della strana coppia che, con l'occasione del viaggio, solidarizza fino all'amicizia, che arriva al suo Zenith la sera di natale e din don dan. Così il pubblico in cerca di buoni sentimenti un tanto al chilo gode nel farsi rifilare questa paccottiglia stracotta da un regista che nel suo curriculum annovera soltanto film come Scemo e + scemo, Tutti pazzi per Mary, Io, me & Irene, Amore a prima svista e I tre marmittoni. E che rimane saldamente ancorato a quel livello artistico.    

Il sacrificio del cervo sacro (The Killing of a Sacred Deer)

anno: 2017   
regia: LANTHIMOS, YORGOS    
genere: drammatico    
con Colin Farrell, Nicole Kidman, Barry Keoghan, Raffey Cassidy, Sunny Suljic, Bill Camp, Denise Dal Vera, Alicia Silverstone    
location: Regno Unito, Usa
voto: 6    

Un cardiochirurgo con un passato da semi-alcolizzato (Farrell) si ritrova nel mirino vendicativo di un sedicenne psicopatico (Keoghan) convinto che suo padre sia morto sotto i ferri del medico. Il ragazzo dapprima entra nella sfera di benevolenza dell'uomo, dettata dai sensi di colpa, per poi farsi artefice di una vendetta che fa ammalare i figli del dottore, il quale si troverà costretto a sacrificare uno di loro.
Come già nel precedente The lobster, il greco Lanthimos punta tutto sul racconto distopico dallo stile straniato, algido, nel quale i sentimenti vengono espressi rigidamente, il sesso consumato attraverso lo sguardo posato su corpi inerti, l'ipocrisia serpeggia in ogni ambiente e il grande ospedale dove è ambientata la vicenda sembra una replica spetrale dell'Overlook Hotel di kubrickiana memoria. Lanthimos è abilissimo nel tenere alta la tensione per le due ore di film, facendosi aiutare dal ruolo centralissimo di una colonna sonora che procede a colpi di dissonanze e puntando tutto su un'estetica raggelata che è il suo marchio di fabbrica. Ma anche stavolta l'esito del racconto - che per gran parte sembra quasi seguire una pista gialla - naufraga miseramente in un finale ridicolo.    

sabato 23 febbraio 2019

L'amore è imperfetto

anno: 2012   
regia: MUCI, FRANCESCA    
genere: drammatico    
con Anna Foglietta, Giulio Berruti, Bruno Wolkowitch, Camilla Filippi, Lorena Cacciatore    
location: Italia
voto: 6,5    

L'amore è imperfetto, il film anche (e molto), ma ha una carnalità, una vivacità e un ritmo che lo fanno sembrare una versione dei melodrammoni di Matarazzo aggiornata ai tempi dell'amore liquido. La prima opera di finzione di Francesca Muci - che avevamo apprezzato nel documentario L'Italia del nostro scontento - è tratta dal suo romanzo eponimo e racconta la vicenda della trentacinquenne Elena (interpretata con venature hot da una Anna Foglietta, finora mai tanto brava) che - tra il 2005 e il 2012 - si arrabatta tra tre amori impossibili e la convivenza con l'amica Roberta (Filippi): quello per Marco (Berruti), gay che, approfittando della sua bellezza, la vuole solo per poterla inseminare; quello per un maturo produttore discografico cinquantenne dai modi garbati (Wolkowitch) e quello, fuggitivo e subìto suo malgrado, di una ragazzina invadente, insolente e ninfomane (Cacciatore).
Ambientato in una Bari fotografata nei suoi angoli più suggestivi, nella quale neppure il barista o il fruttivendolo parlano come Lino Banfi perché nel capoluogo pugliese hanno frequentato tutti la scuola di dizione, L'amore è imperfetto trova una sua cifra stilistica originale, in un andirivieni temporale che spariglia le carte del racconto e ci appassiona al destino sentimentale della protagonista. In testa e in coda, purtroppo, tocca sorbirsi un paio di canzoncine di Tiziano Ferro.    

giovedì 21 febbraio 2019

Con cuore puro - Un documentario sull'incerto universo amoroso

anno: 2011   
regia: LE MOLI, LUCREZIA    
genere: documentario    
con Marc Augè, Maria Luisa Spaziani, Remo Bodei, Roberta De Monticelli, Sergio Manghi, Silvano Agosti, Umberto Galimberti    
location: Italia
voto: 7,5    

Preceduto da una fiaba di Oscar Wilde, funzionale soltanto al prologo, ma inessenziale al resto, su disegni di Sebastien Laudembach, Con cuore puro aggiorna la lezione pasoliniana dei Comizi d'amore con un angolo d'osservazione assai più ristretto rispetto a quello dell'illustre predecessore. Qui infatti la sessualità gioca un ruolo meno che secondario, le risposte vengono fornite soprattutto da esperti di rango (Augè, Galimberti, De Monticelli, Bodei ma anche lo spiazzante quanto illuminante cineasta indipendente Silvano Agosti, vero alfiere del pensiero divergente). Alle loro, si accompagnano le testimonianze di uomini e donne di tutte le età ma, a guardare i salotti che sigillano il finale, tutti di estrazione sociale medio-alta della zona di Parma e provincia (laddove il documentario di Pasolini andava a intercettare soprattutto gente povera e illetterata). Ma al di là delle distorsioni campionarie, il quadro offerto allo spettatore è ricco di sfaccettature diverse, non è mai banale ed è assemblato con ottimo senso del montaggio: una conferma del valore della regista già mostrato ne L'Italia del nostro scontento.    

martedì 19 febbraio 2019

La Battaglia Di Hacksaw Ridge (Hacksaw Ridge)

anno: 2016   
regia: GIBSON, MEL    
genere: guerra    
con Andrew Garfield, Teresa Palmer, Hugo Weaving, Rachel Griffiths, Luke Bracey, Vince Vaughn, Sam Worthington, Nathaniel Buzolic, Richard Roxburgh, Matthew Nable, Ryan Corr, Goran D. Kleut, Firass Dirani, Milo Gibson, Ben O'Toole, Luke Pegler, Robert Morgan (IV), Ori Pfeffer, Ben Mingay, Nico Cortez, Nathan Halls, Nathan Baird, Damien Thomlinson, Chris Bartlett, Santo Tripodi, John Batziolas, Jacob Warner, Josh Dean Williams, John Cannon, Michael Sheasby, Milan Pulvermacher, Sean Lynch, Harry Greenwood, Benedict Hardie, Nicholas Cowey, James O'Connell, Bill Young, Tim Potter, Richard Pyros, Dennis Kreusler, Mikael Koski, Jim Robison, Samuel R. Wright    
location: Usa
voto: 7    

Il primo obiettore di coscienza ad andare sul campo di combattimento si chiamava Desmond Doss (Garfield). Era un ragazzo religiosissimo, carico di fede, che per ragioni legate all'indole manesca del padre giurò a sé stesso che non avrebbe mai toccato un'arma. Nonostante ciò, decise di entrare nell'esercito, dove il suo personale golgota passò per la turlupinatura e il pestaggio da parte dei suoi commilitoni prima di partire per Okinawa, dove fu tra i protagonisti della sanguinosa battaglia di Hacksaw Bridge contro i giapponesi. In quella oscena carneficina, il ragazzo si produsse in un atto eroico che gli consentì si salvare decine di soldati americani feriti, vedendosi in seguito tributare la medaglia d'onore del Congresso, massima onorificenza per un non militare.
Mel Gibson, con l'attitudine grandguignolesca che gli è propria, taglia il film in due: nella prima parte assistiamo a un racconto di formazione, con qualche flashback nell'infanzia difficile del protagonista. La seconda è tumultuosa ed epica, interamente girata sul campo di battaglia e senza risparmiare allo spettatore nulla dell'abominio della guerra. Coerente col registro ipertrofico e violentissimo di Braveheart, La passione di Cristo e Apocalypto, nonché con una certa retorica patriottica, Gibson si dimostra tuttavia narratore efficace, anche se qui più altrove si scorge nello script un eccesso di verbosità.    

lunedì 18 febbraio 2019

La casa di Jack (The House That Jack Built)

anno: 2019       
regia: VON TRIER, LARS    
genere: thriller    
con Matt Dillon, Bruno Ganz, Uma Thurman, Siobhan Fallon Hogan, Sofie Gråbøl, Riley Keough, Jeremy Davies, Jack McKenzie, Ed Speleers, David Bailie, Mathias Hjelm, Ji-tae Yu, Emil Tholstrup, Marijana Jankovic, Carina Skenhede, Rocco Day, Cohen Day, Robert Jezek, Osy Ikhile, Christian Arnold, Johannes Kuhnke, Jerker Fahlström, Robert G. Slade, Vasilije Mujka    
location: Usa
voto: 6    

Negli anni '70 Jack (Dillon), un ingegnere solitario che gira a bordo di un furgone rosso fuoco e ha un disturbo ossessivo-compulsivo, si trasforma in un killer dal giorno in cui carica sul suo van una donna in panne che blatera senza sosta (Thurman), pretendendo che l'uomo stia ai suoi ordini. Un colpo di crick in piena faccia e via, chiusa nella enorme cella frigorifera di una strada senza mezzo nome e perciò difficilmente rintracciabile, dove andrà a fare compagnia a montagne di pizze surgelate. Da quel giorno, per 12 anni, Jack continua a colpire. Quasi sempre donne, che puntualmente mutila e mette insieme alle altre nella stessa cella frigorifera, non prima di aver scattato loro delle fotografie per i suoi piaceri intimi. A una sorta di confessore che non si fatica a identificare con il Virgilio dantesco che lo accompagna nella sua personalissima discesa agli inferi, impersonato dal grande Bruno Ganz (qui alla sua ultima apparizione), Jack racconta 5 dei tanti omicidi, che suggellano altrettanti capitoli, uno più efferato e raccapricciante dell'altro.
Con la sua voglia di scioccare e dare scandalo, Von Trier non si fa scrupolo di assestare colpo bassissimi allo stomaco dello spettatore, costretto per due ore e venti a uno splatter iperrealista. Ma l'ego del regista danese non si ferma all'operazione-scandalo. Anziché optare per un film di genere che, pur nel suo parossismo, ha la capacità di tenere incollato lo spettatore alla poltrona per un paio d'ore (la catabasi finale è un capitolo a sé stante, scollato dal resto del film), Von Trier ricama l'opera con riferimenti filosofici che spaziano dalle variazioni Goldberg eseguite da Glen Gould alla tecnica di costruzione delle cattedrali a sesto acuto, passando per i lager, l'arte pittorica contemporanea, gli Stukas tedeschi e le tecniche di putrefazione dell'uva per ottenere vino: tutti addendi di un unico teorema che dovrebbe dare come risultato l'idea dell'omicidio come arte. Un guazzabuglio di idee accatastate con iattanza, senza una giustificazione argomentativa plausibile, che fanno il paio con un epilogo che avanza di gran lunga il limite del ridicolo. Ed è un peccato, perché Von Trier è talmente sopraffatto dalla volontà di stupire (anche filmicamente, sebbene gran parte del film sia girato con la macchina a spalla, con una sola canzone di Bowie - Fame - e ripetute citazioni dal Don't Look Back di Pannebaker), da stemperare la potenza narrativa della psicopatologia del protagonista, un Matt Dillon di sconcertante bravura e dalle venature ironiche. Rimane l'impressione che il film di Von Trier sia fragile e velleitario come la casa che Jack si ostina a voler costruire in una contrapposizione perenne tra ingegneria e architettura, per poi generare il mostro che ci viene consegnato in sottofinale.    

sabato 16 febbraio 2019

Io sono Mia

anno: 2019       
regia: DONNA, RICCARDO    
genere: biografico    
con Serena Rossi, Maurizio Lastrico, Lucia Mascino, Dajana Roncione, Antonio Gerardi, Nina Torresi, Daniele Mariani, Francesca Turrini, Fabrizio Coniglio, Gioia Spaziani, Duccio Camerini, Simone Gandolfo, Enzo Paci, Francesco Gaudiello, Lorenzo Gioielli, Guido Roncalli, Corrado Invernizzi, Edoardo Pesce    
location: Italia
voto: 3    

Era il febbraio del 1989 quando Mia Martini (Rossi), dopo un lungo periodo di eclissi e un problema alle corde vocali che le aveva arrochito la voce, tornò sulle scene per calcare il palcoscenico della più nota kermesse italiana di musica pop: quello di Sanremo. Nei giorni che precedettero la sua esibizione, Domenica Bertè (questo il suo nome all'anagrafe) concesse una lunga intervista a una giornalista (Mascino). Un'intervista che parte dall'epoca in cui, ancora adolescente, viveva in Calabria e veniva avversata dal padre, refrattario a qualsiasi sua velleità artistica. Poi il trasferimento nella capitale insieme alla sorella Loredana (Roncione), l'amicizia con Renato Zero (sotto le mentite spoglie di un certo Anthony), l'incontro col talent scout Alberto Crocetta (Gerardi), che la portò al successo grazie a un brano anticonformista come Padre davvero. Da lì iniziò una carriera che sembrava tutta in discesa e che invece presentò più di un inciampo: dai grandi successi di Piccolo uomo di Bruno Lauzi e Minuetto di Franco Califano (interpretato dal sempre eccellente Edoardo Pesce), fino alle vittorie al Festivalbar, i premi a raffica e persino una tournée con Charles Aznavour alla discesa negli inferi della maldicenza, alla tormentata storia con Ivano Fossati, qui celato nella figura di un fotografo di successo (Lastrico), la indussero, nei primi anni ottanta, a un lungo ritiro dalla scene.
Ha dell'incredibile che un film come Io sono Mia, prodotto da Rai Fiction, prima di passare in televisione abbia potuto attrarre un pubblico relativamente consistente al cinema, per di più come evento speciale. Tolte le prove di Antonio Gerardi ed Edoardo Pesce, qui non c'è la minima traccia di professionalità: attori inguardabili e inascoltabili, sviluppo prevedilissimo e persino filologico si aggiungono allo smacco di Renato Zero e Ivano Fossati, che hanno espressamente chiesto e ottenuto di non essere citati nel film. Il che la dice lunga sul livello di questo prodotto.    

giovedì 14 febbraio 2019

Santiago, Italia

anno: 2018       
regia: MORETTI, NANNI    
genere: documentario    
con Nanni Moretti    
location: Cile, Italia
voto: 8    

C'è una bella storia italiana dietro il colpo di stato dell'11 settembre 1973 che portò al potere Pinochet e alla morte Salvador Allende. Ed è una storia di solidarietà e di accoglienza. La racconta, con lo stile sobrio e rigoroso che gli è consueto, Nanni Moretti, che torna al documentario a quasi trent'anni di distanza da La cosa, con un film pregno di politica. Affidandosi alle testimonianze di giornalisti, diplomatici, insegnanti ma anche a quelle dei militari che appoggiarono il golpe che avrebbe portato a una lunga stagione di dittatura, Moretti ricostruisce la vicenda che indusse circa 150 cileni, molti dei quali bambini, a rifugiarsi nell'ambasciata italiana, dove vennero accolti, sfamati e persino messi in volo per l'Italia, Paese che li avrebbe ospitati e che avrebbe anche dato loro un lavoro. Era tutta gente che aveva vissuto per appena tre anni il sogno di una rinascita, perché quello di Allende fu il primo governo socialista latinoamericano andato al potere non con un colpo di stato ma con una democratica elezione. Ma l'egualitarismo e le riforme sociali di Allende non piacevano agli americani, che appoggiarono il golpe di militari disposti persino a bombardare la Moneda, il palazzo del governo a Santiago. L'esperimento di Allende era ben lontano dal socialismo reale di Unione Sovietica e Cina, libertario e pienamente democratico, tale dunque da mettere in allarme gli Stati Uniti (si era nel pieno della Guerra Fredda). Di quella stagione i diversi testimoni di quella bella vicenda raccontano molti aspetti, anche i più crudi (desaparecidos, tortura), fino alla commozione. Una commozione che arriva anche allo spettatore, che davanti a fatti del genere non può che fare eco al regista nell'unica inquadratura nella quale egli appare nel film: "Io non sono imparziale. Non sono imparziale".    

mercoledì 13 febbraio 2019

La donna dai tre volti (Three faces of Eve)

anno: 1957       
regia: JOHNSON, NUNNALLY    
genere: drammatico    
con Joan Woodward, David Wayne, Lee J.Cobb, Edwin Jerome, Alena Murray, Nancy Kulp, Douglas Spencer, Terry Ann Ross, Mimi Gibson    
location: Usa
voto: 5,5    

Negli anni Cinquanta, un marito (Wayne) porta sua moglie (Woodward) a visita psichiatrica per cercare di sbrogliare la matassa dei suoi comportamenti bizzarri. Lo psichiatra (Cobb) scorge un caso di conclamata schizofrenia con ben tre personalità diverse: la brava e grigia madre di famiglia, la donnetta frivola accalappiamaschi e una terza donna, assai raffinata, che vorrebbe una vita del tutto diversa. Ci vorrà tutta la pervicacia dell'analista per portare la donna all'abreazione e risolvere il caso.
Tratto da un libro di Corbett H. Thigpen e Hervey M. Cleckey, entrambi medici, il film soffre un certo schematismo di fondo nei ruoli di psichiatra e paziente, ma regalò a Joanne Woodward un meritatissimo premio Oscar a soli 27 anni.    

domenica 10 febbraio 2019

A Private War

anno: 2018       
regia: HEINEMAN, MATTHEW    
genere: biografico    
con Rosamund Pike, Tom Hollander, Jamie Dornan, Stanley Tucci, Faye Marsay, Greg Wise, Nikki Amuka-Bird, Corey Johnson, Alexandra Moen    
location: Afghanistan, Libia, Regno Unito, Siria, Sri Lanka
voto: 4    

Avrebbe potuto essere un autentico gioiello questo A Private War, quarto film "impegnato" del regista americano Matthew Heineman, che racconta la storia di Marie Calvin (Pike), giornalista statunitense che dal 1985 fino alla morte lavorò per il londinese Sunday Times, confezionando indimenticabili reportage da ogni zona di guerra del mondo di cui, a suo avviso, i media occidentali non parlavano abbastanza. Fu così che rimase menomata all'occhio sinistro durante la guerra civile nello Sri-Lanka. Dopo avere sfidato la fortuna in Afghanistan, Libia (di cui nel film viene ripresa l'intervista a Gheddafi), Kosovo, Cecenia e Timor East, la sua vita si concluse sotto una bomba in Siria. E invece A Private War non riesce ad appassionarci neppure per un momento all'avventura così coraggiosa e radicale della sua protagonista, mantenendosi sempre a mezza strada tra vicende private e l'ansia di riprendere il suo lavoro, come se le guerre fossero, appunto, una faccenda privata. La regia, pur indugiando su particolari raccapriccianti (le fosse comuni in Afghanistan, le condizioni di vita impossibili dei bambini, il vivo del conflitto, le città coventrizzate), non spicca mai il volo, assembla pigramente immagini come si trattasse di reperti documentaristici e il pathos che sarebbe stato indispensabile per raccontare una vicenda come questa è del tutto assente.  

sabato 9 febbraio 2019

Il primo re

anno: 2018       
regia: ROVERE, MATTEO    
genere: storico    
con Alessandro Borghi, Alessio Lapice, Fabrizio Rongione, Massimiliano Rossi, Tania Garribba, Michael Schermi, Max Malatesta, Vincenzo Pirrotta, Vincenzo Crea, Lorenzo Gleijeses, Gabriel Montesi, Antonio Orlando, Florenzo Mattu, Martinus Tocchi, Vincenzo Pirrotta, Vincenzo Crea, Ludovico Succio, Emilio De Marchi    
location: Italia
voto: 8    

Tra mito, leggenda e brandelli di documentazione storica, arriva sul grande schermo il coraggiosissimo film di Matteo Rovere, che racconta la parabola che portò i due figli di Rea Silvia, Romolo (Lapice) e Remo (Borghi), alla nascita di Roma. Tutto ruota sulle avventure perennemente sul filo della sopravvivenza di una sparuta comunità di pastori che prima venne catturata dai guerrieri di Alba e più tardi si trovò a doverne fronteggiare l'esercito. Fino a quando Remo, legatissimo al fragile fratello, ma forte del suo carattere e della sua potenza fisica, non si autoproclamò primo re di quelle genti dopo averle sconfitte in battaglia. Un ruolo che lo portò a un'esagerazione esasperante e al conflitto con l'amatissimo Romolo, che fu il vero fondatore della città di Roma: come a dire che la leggenda suggerisce che la capacità di mediazione ha la meglio sulla forza ed il coraggio.
Interamente parlato in una lingua pre-latina per la creazione della quale al film ha collaborato un'intera squadra di linguisti, girato soltanto con luci naturali (da Oscar il lavoro compiuto d Daniele Ciprì) e con superbe scenografie (di Tonino Zera), Il primo re è la prova di un enorme passo in avanti di Matteo Rovere dai tempi di Un gioco da ragazze. Dalle poderose scene dell'inondazione del Tevere ai continui conflitti, spesso all'arma bianca, che non risparmiano allo sguardo dello spettatore immagini da Grand-Guignol, il film è un'opera epica straordinariamente potente e plumbea, fatta di viscere, carne e suoni, capace di raccontare un'epoca difficilissima nella quale la sopravvivenza era una scommessa quotidiana, la forza muscolare contava ben più di quella verbale e il rapporto con il soprannaturale e gli dei costituiva il perno del confronto verbale, come ci ricorda l'epigrafe in apertura di Maugham: "un dio che può essere compreso non è un dio".    

Selma - La strada per la libertà

anno: 2014   
regia: DuVERNAY, AVA    
genere: storico    
con David Oyelowo, Carmen Ejogo, Jim France, Trinity Simone, Mikeria Howard, Jordan Christina Rice, Ebony Billups, Nadej k Bailey, Elijah Oliver, Oprah Winfrey, Clay Chappell, Tom Wilkinson, Giovanni Ribisi, Haviland Stillwell, André Holland, Ruben Santiago-Hudson, Colman Domingo, Omar J. Dorsey, Tessa Thompson, Common, Lorraine Toussaint, David Morizot, David Dwyer, E. Roger Mitchell, Dylan Baker, Ledisi Anibade Young, Kent Faulcon, Merriwether Stormy, Niecy Nash, Corey Reynolds, Wendell Pierce, Stephan James, John Lavelle, Trai Byers, Keith Stanfield, Henry G. Sanders, Charity Jordan, Stan Houston, Tim Roth, Greg Chandler Maness, Nigel Thatch, Stephen Root, Michael Papajohn, Brian Kurlander, Jeremy Strong, Elizabeth Diane Wells, Tara Ochs, David Silverman, Charles Saunders, Dexter Tillis, Cuba Gooding Jr., Alessandro Nivola, Michael Shikany, Brandon O'Dell, Dane Davenport, Brandon Carroll, Mark Cabus, Christine Horn, Dan Triandiflou, Jody Thompson, Kenny Cooper, Montrel Miller, Charles Black, Zipporah Carter, Willean Lacy, Dawn Young    
location: Usa
voto: 6    

Dieci anni dopo l'episodio che diede vita al boicottaggio del servizio di traporto pubblico a Montgomery, in Alabama, a seguito del rifiuto da parte di Rosa Parks di cedere il posto a sedere su un autobus a un bianco, il cammino per i diritti civili da parte della popolazione di colore era ancora molto lungo. Più lungo di quello che nel 1965 da Selma avrebbe portato la popolazione di colore a manifestare fino a Montgomery, 80 chilometri percorsi sotto la guida di Martin Luther King, il reverendo che predicava la nonviolenza e, forte del premio Nobel per la pace vinto l'anno precedente, poteva permettersi di parlare da pari a pari con il presidente degli Stati Uniti, l'ambiguo Lyndon Johnson (Wilkinson). Mentre Malcolm X spingeva la popolazione nera verso lo scontro frontale, MLK rivendicava il diritto al voto per i neri, sancito dalle leggi federali ma non rispettato a livello locale da gran parte degli Stati del Sud. Per questo, il leader nero organizzò quella marcia alla quale si unirono molti bianchi progressisti, desiderosi di vedere rispettati i diritti civili della popolazione discriminata. A seguito di quella clamorosa protesta, le cui immagini fecero il giro del mondo, fu proclamato Voting Rights Act, con buona pace di J. Edgar Hoover (Baker) e del governatore dell'Alabama George Wallace (Roth).
Ava DuVernay dirige un film necessario, seppure diseguale e a tratti oleografico, con scene di massa non sempre all'altezza e lunghe parentesi fin troppo parlate. Ma in un'epoca di serpeggiante razzismo, nonostante nel frattempo il primo presidente nero si fosse insediato alla Casa Bianca, le differenze di condizione tra bianchi e neri sono ancora troppo accentuate e il film assume un valore che va ben al di là della mera documentazione storica.    

giovedì 7 febbraio 2019

Il Corriere - The Mule

anno: 2019       
regia: EASTWOOD, CLINT    
genere: drammatico    
con Clint Eastwood, Bradley Cooper, Laurence Fishburne, Michael Peña, Dianne Wiest, Andy Garcia, Alison Eastwood, Taissa Farmiga, Ignacio Serricchio, Loren Dean, Eugene Cordero    
location: Messico, Usa
voto: 8    

Earl Stone (Eastwood) ha dedicato tutta la sua vita al lavoro, affermandosi come floricoltore al punto da vincere dei premi ma trascurando perpetuamente la famiglia. Di questa, soltanto sua nipote gli rivolge ancora la parola. Quando l'e-commerce prende il sopravvento, Earl è costretto a chiudere la sua ultradecennale attività, riservandosi di trovare una qualche soluzione, lui che non è tipo da avere un piano B per nessuna cosa. L'occasione gli capita quando gli viene proposto - date le sue caratteristiche anagrafiche (l'uomo è prossimo ai 90) e quelle di conducente d'auto di lunghissimo corso con una patente immacolata dato che non ha mai preso una multa - di fare da corriere della droga per conto di un cartello messicano. I soldi arrivano a mucchi, le incombenze diventano sempre più onerose ma nel frattempo Earl rischia di giocarsi anche l'affetto della nipote e un solerte funzionario della DEA sta indagando sul traffico sospetto di droga proprio per arrivare a lui.
Alla vigilia dei 90 anni, il grande, vecchio Clint torna davanti (oltre che dietro) alla macchina da presa a dieci anni di distanza da Gran Torino, di cui il film tratto da un articolo del giornalista Sam Dolnick del New York Times Magazine sembra essere, per alcuni versi, la prosecuzione ideale. Qui come lì, ci troviamo davanti a un solitario tutto d'un pezzo, un veterano (ancora una volta, della guerra in Corea) dalla battuta sempre pronta (nel film si ride anche molto) che non ha paura degli sgherri del boss messicano (Garcia) ma che ha soprattutto una caratteristica: decide. Non è uno che si perde in astrusi ragionamenti filosofici, il vecchio Earl. Al contrario, è ruvidamente pragmatico, decide di testa sua e se c'è da aiutare dei neri in panne sulla statale si ferma a dargli una mano nello stesso momento in cui li appella come "negri". Ed è proprio questa sua capacità di decidere che fa di lui l'ennesimo antieroe della filmografia eastwoodiana, un personaggio "morale" cosciente di avere abdicato dai valori della famiglia e che cerca la redenzione nello scorcio di vita che gli rimane, anche a costo di pagarne pesantemente il prezzo, proprio come l'evaso Butch Haynes di Un mondo perfetto, il Dave di Mystic River, il Frankie Gunn di Million Dollar Baby e il Walt Kowalski di Gran Torino. Un personaggio - peraltro interpretato da un Eastwood che oltre a essere un grande narratore, troviamo qui in stato di grazia, definitivamente affrancato dalla battuta di Sergio Leone secondo cui l'attore avrebbe solo due espressioni, "una con il cappello e l'altra senza" - che non può non affascinare, nonostante il pensiero rigidamente conservatore e il fatto che chi lo interpreta sia un repubblicano che ha votato Trump.    

Paradise Beach: Dentro L'incubo (The Shallows)

anno: 2016   
regia: COLLET-SERRA, JAUME    
genere: thriller    
con Blake Lively, Óscar Jaenada, Sedona Legge, Brett Cullen    
location: Messico, Usa
voto: 6,5    

Una giovane surfista statunitense (Lively) si reca da sola in una splendida spiaggia messicana per cavalcare le onde. Peccato che quel mare sia terreno di caccia per uno squalo che nel frattempo ha fatto colazione con un paio di altri surfisti che passavano da quelle parti. La donna - che ha abbandonato anzitempo gli studi di medicina che invece le torneranno utilissimi per la sopravvivenza - ha soltanto uno scoglio e una boa (da cui The shallows del titolo originale) ai quali aggrapparsi per evitare il predatore. Ce la farà?
Lo schema del film è di quelli stravisti: un solo attore sulla scena (a parte qualche sparuto personaggio di contorno), un rischio corso con incoscienza e il problema, enorme, di salvarsi la vita. Da esperto del genere (Unknown, Non-Stop, Run all Night), il catalano Jaume Collet-Serra riesce benissimo nell'impresa di non dilatare il film oltremisura, di tenere sempre viva l'attenzione dello spettatore e di non eccedere nell'inverosimile, se non nel finale davvero improbabile. Riesce così, nonostante il casting di minima e l'esiguità del budget (quasi tutto speso negli eccellenti effetti speciali e nella sontuosa fotografia di Flavio Labiano) a confezionare un survival movie decisamente migliore rispetto a All is lost, Alla deriva e Open Water e probabilmente il miglior film di squali dopo quello di Spielberg.    

mercoledì 6 febbraio 2019

Non ci resta che il crimine

anno: 2019       
regia: BRUNO, MASSIMILIANO    
genere: commedia fantastica    
con Marco Giallini, Alessandro Gassmann, Gianmarco Tognazzi, Edoardo Leo, Ilenia Pastorelli, Massimiliano Bruno, Marco Conidi    
location: Italia
voto: 6,5    

Tre amici disoccupati sbarcano il lunario allestendo un tour cittadino per i luoghi che hanno reso famosa la Banda della Magliana, sperando di riuscire a fare i soldi "con la pala". Passando per un cunicolo spazio-temporale, si ritrovano improvvisamente nel 1982, quando la nazionale italiana sta giocando il mondiale che l'avrebbe portata alla vittoria. Vengono così a contatto con De Pedis, il boss della banda conosciuto come Renatino (Leo), e con i suoi scagnozzi, imbarcandosi in avventure paradossali e assai rischiose.
Giunto alla sua sesta regia, Massimiliano Bruno propone un mix tra Ritorno al Futuro e Non ci resta che piangere, con espliciti riferimenti a entrambi (a partire dalla canzoncina che avrebbe avuto successo in futuro: Yesterday nel film di Troisi e Benigni, qui - purtroppo - Dammi tre parole, portata al successo da Valeria Rossi) e un vago richiamo a I soliti ignoti. La regia è sciatta come al solito (inguardabili le scene di esultanza dei tifosi dopo la vittoria con l'Argentina), la Pastorelli la solita miracolata della settima arte che non ha ancora capito la differenza tra un set cinematografico e il salotto del Grande Fratello, ma i tre protagonisti - nonostante il reiterato type casting di Giallini - sono talmente affiatati da riuscire a garantire scene a tratti esilaranti, con Gassman nel ruolo di un mezzo ritardato e Tognazzi in quello dell'ipocondriaco pavido. Inedito ruolo da cattivo per Edoardo Leo, qui meno a proprio agio rispetto ad altre occasioni e comunque destinato a suscitare le simpatie di chi non ha strumenti sufficienti per capire quale razza di sordido criminale interpreta. Il che rischia di generare un nuovo effetto Gomorra.    

martedì 5 febbraio 2019

Searching for Sugar Man

anno: 2012   
regia: BENDJELLOUL, MALIK    
genere: documentario    
con Sixto Rodriguez, Stephen 'Sugar' Segerman, Dennis Coffey, Mike Theodore, Dan DiMaggio, Jerome Ferretti, Steve Rowland, Willem Möller, Craig Bartholomew Strydom, Ilse Assmann, Steve M. Harris, Robbie Mann, Clarence Avant, Eva Rodriguez, Rodriguez, Regan Rodriguez, Sandra Rodriguez-Kennedy, Rick Emmerson, Rian Malan    
location: Sudafrica, Usa
voto: 6,5    

La storia è di quelle straordinarie: tra il 1970 e il 1972 Sixto Rodriguez, un operaio di origini messicane residente a New York, sfornò due magnifici dischi di stampo dylaniano che non ebbero alcun successo negli Stati Uniti. Caso volle che per un fortuito passaparola quegli album finirono in Sudafrica, dove vennero ristampati e venduti a milioni. I proventi di quelle vendite furono inviati a Clarence Avant - il patron della casa discografica che produsse Cold Fact e Coming from Reality - il quale non ne fece parola col diretto interessato, che - incassato l'insuccesso - riprese la sua vita di carpentiere con grande umiltà. Nel frattempo, in Sudafrica girava voce che l'uomo si fosse dato fuoco sul palco durante un concerto o, in un'altra versione, che si fosse suicidato in quell'occasione con un colpo di pistola alla testa. Ci volle tutta la caparbietà di Stephen 'Sugar' Segerman, un negoziante di dischi del Sudafrica, per ricostruire l'intera vicenda e capire come fossero andate le cose. E qui si apre un secondo capitolo ancora più sorprendente del primo, che non può essere raccontato per evitare lo spoiler.
Vincitore del premio Oscar come miglior documentario, Sugar Man è l'omologo di Alla ricerca di Vivian Maier e racconta la storia di un successo arrivato, malgrado tutto, quando Rodriguez era ancora in vita. Il caso e la curiosità sono per ambedue le storie le molle che hanno condotto alla scoperta di capolavori altrimenti sconosciuti, portati alla giusta ribalta in maniera in gran parte accidentale. Ma a Sugar Man difetta un certo schematismo documentaristico (quasi tutto imperniato su immagini di repertorio e interviste), mentre infastidisce vedere nel 1998 una popolazione totalmente bianca assistere a un concerto, a 4 anni dalla vittoria elettorale di Nelson Mandela.
Nota a margine: confidiamo che qualcuno prima o poi ci racconti anche la straordinaria vicenda di Steve Eliovson, jazzista sudafricano scomparso nel nulla dopo averci lasciato un gioiello rarissimo come Dawn Dance senza averne mai ritirato i proventi.    

domenica 3 febbraio 2019

Shooter

anno: 2007   
regia: FUQUA, ANTOINE    
genere: thriller    
con Mark Wahlberg, Michael Pena, Danny Glover, Kate Mara, Elias Koates, Rhona Mitra, Rade Sherbedgia, Levon Helm, Ned Beatty, Tate Donovan, Justin Louis    
location: Etiopia, Usa
voto: 8    

Un tiratore scelto in congedo dell'esercito americano (Wahlberg) viene reclutato dai servizi segreti affinché scopra da dove potrebbe avvenire un prossimo attentato al presidente degli Stati Uniti. Si tratta in realtà di una trappola per uccidere l'arcivescovo etiope, invitato a fare un comizio al fianco della più alta carica dello Stato, nonché lo stesso ex militare, entrambi testimoni scomodissimi di un genocidio perpetrato dall'amministrazione americana in terra d'Africa per loschi interessi affaristici. Costretto a una difficilissima fuga, l'uomo dovrà fare leva su tutte le risorse per poter sopravvivere e vendicarsi di chi lo ha messo in quel pasticcio uccidendogli il cane.
Antonine Fuqua, il regista più muscoloso di Hollywood, ha uno smisurato talento per l'action movie (Bait, Training Day). Con Shooter squaderna davanti all'occhio dello spettatore tutte le sue doti di regia (non si contano i topoi di genere, dagli inseguimenti, fino alle sparatorie e alle esplosioni, con abbondantissimo uso di effetti speciali), curando al tempo stesso una trama con molte sorprese e un ammiccamento a Rambo. Cosa chiedere di più a un thriller, se non molta azione, un plot ben congegnato e un'abbondante spruzzata polemica nei confronti degli abusi del governo a stelle e strisce (ricordiamoci che l'apertissima polemica nei confronti del governo americano avviene nel penultimo anno della presidenza di Bush Jr.), a servizio di uno dei film più politici del regista di Pittsburgh?    

sabato 2 febbraio 2019

Gli Incredibili 2 (Incredibles 2)

anno: 2018   
regia: BIRD, BRAD    
genere: animazione    
location: Usa
voto: 6

La buona notizia è che in casa Incredibili mammà Elastigirl e papà Mr. Incredibile dopo 14 anni - tanti ne sono passati dal primo episodio targato Pixar - fanno ancora l'amore, visto che ai due pargoli, rimasti tali e quali (sic!), se n'è aggiunto un terzo dai poteri strabilianti. La notizia cattiva è che siamo alle solite: effetti e invenzioni visive stupefacenti, ritmo elevatissimo, ma poca o pochissima sostanza sul piano narrativo, con la solita persona malvagia che costringe i buoni a dare del loro meglio.
Partenza al fulmicotone: Elastigirl esalta le sue doti di flessibilità per fermare il minatore, uno che sta trapanando un'intera città con uno strumento che ha le dimensioni di Gozilla. Ma gli effetti collaterali dell'intervento della supereroina gettano una cattiva luce su tutti il mondo dei supereroi. Per riabilitarli, un tycoon della televisione prospetta loro la possibilità di mettersi all'opera in situazioni monitorate ad hoc. Ma un ipnotizzatore cambia il senso di marcia della donna. E allora saranno i suoi figli a salvare la situazione per il rotto della cuffia. Ed è qui che il film comincia ad alternare scene d'azione con quadretti familiari tanto inediti per il genere supereroico, quanto sbiaditi.
La famiglia degli incredibili torna sul grande schermo con le uniche novità di un pargolo dotatissimo e di un papà costretto a fare il babysitter mentre la moglie gli ruba l'agognata scena. Il resto, tra inseguimenti e trovate visive assai fantasiose, procede sul binario di un cinema d'animazione piuttosto convenzionale, con citazioni da 007 e qualche verbosità di troppo che dilata il film a due ore piene.