regia: WHATELY, FRANCIS
genere: documentario
con
David Bowie, Rick Wakeman, John Harris, Ken Scott, Mick Ronson, Charles
Shaar Murray, Trevor Bolder, Angie Bowie, Camille Paglia, Ava Cherry,
Carlos Alomar, Luther Vandross, Nelson George, Robin Clark, Geoff
MacGormack, Russell Harty, Earl Slick, Dennis Davis, Brian Eno, Tony
Visconti, Robert Fripp, David Mallet, Nile Rodgers, Carmine Rojas
location: Germania, Regno Unito, Usavoto: 7
Five years è una delle più celebri canzoni di David Bowie, artista poliedrico, spiazzante, innovativo. E cinque sono anche gli anni sui quali si concentra questo riuscitissimo documentario di Francis Whately, che su quella cinquina di punti cardine imbastisce la ricostruzione della traiettoria umana e artistica del protagonista. Il primo è l'anno tra il 1971 e il 1972, quello delle provocazioni di Hunky Dory, dell'accentuazione dell'ambiguità sessuale appena dopo aver pubblicato un disco nel quale compare vestito da donna à la Lauren Bacall, e del suo nuovo alter ego, Ziggy Stardust, a confermare, con Starman, la vena "spaziale" della sua arte dopo brani come Life on mars e Space oddity. E poi l'entrata nella factory di Andy Warhol, la fama mondiale, i concerti sold out, le droghe. Il secondo anno è quello a cavallo tra il '74 e il '75, quello della svolta tra rhythm'n'blues, funky e disco, con la regia di Tony Visconti, la collaborazione di John Lennon (Fame e Across the universe) e la chitarra di Carlos Alomar, sempre sorridente davanti alla cinepresa. È l'anno della popolarità assoluta, raggiunta con Young americans, mentre gli eccessi della cocaina lo portano a pesare 45 chili. E ancora una metamorfosi, l'alter ego che gli rimarrà incollato più a lungo: quello del Duca Bianco. Con esso, l'ennesimo ondeggiamento dal soul bianco del disco precedente al funky e al krautrock di Station to station. Ormai raggiunto l'apice della popolarità mondiale, Bowie spiazza per l'ennesima volta (e sarà tutt'altro che l'ultima) pubblico e critica chiamando a sé quei due geni mattacchioni di Robert Fripp e Brian Eno. Da lì parte la cosiddetta "trilogia berlinese" (1977). Chiunque altro, al suo posto, avrebbe cavalcato l'onda della popolarità planetaria. Lui no. Lui sterza bruscamente verso una musica fortemente avanguardistica, facendo storcere il naso a frotte di giornalisti costretti, a distanza di anni, a cospargersi il capo di cenere. Quarto anno: 1979-1980. sugli scaffali dei negozi di dischi arriva Scary monsters, l'album che contiene Ashes to ashes e Fashion, ma l'insaziabile fame di espressione artistica di Bowie non si ferma e così, dopo avere interpretato al cinema la parte di un alieno per Nicolas Roeg (L'uomo che cadde sulla terra), stupisce tutti con una performance teatrale da brividi, mettendo il suo corpo esilissimo a servizio di un personaggio difficile come Elephant man, al quale regala una memorabile invenzione vocale. Siamo all'ultimo anno, il 1982/83 e Bowie vuole dire la sua anche sulla dance. Quale scelta migliore, allora, di un album che si intitola, programmaticamente, Let's dance? La carriera della popstar britannica, lo sappiamo, è andata avanti, sempre spiazzante, facendo spallucce alle richieste di mercato e carta stampata. E il documentario - tra un impressionante corredo di immagini di repertorio spesso inedite, interviste davvero memorabili che raccontano la genesi di alcune canzoni e il clima in studio (imperdibili gli interventi di Rick Wakeman sulle trovate geniali di Bowie nella composizione di Life on Mars e le risposte esilaranti di Fripp) - restituisce un ritratto a tutto tondo che non scade nell'agiografia e che si conclude all'indomani dell'ennesima trovata imprevedibile del Duca Bianco, sparito dalla circolazione nel 2007 e che, dopo la pubblicazione di The next day, nel 2013, non rilascia neppure un'intervista. "Abbiamo una bella vita", gli mormora la moglie mentre si trovano al supermercato. "Sì, abbiamo una bella vita".
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