sabato 30 dicembre 2017

La prima neve

anno: 2013       
regia: SEGRE, ANDREA  
genere: drammatico  
con Jean-Christophe Folly, Matteo Marchel, Anita Caprioli, Peter Mitterrutzner, Giuseppe Battiston, Paolo Pierobon, Leonardo Paoli, Lorenzo Pintarelli, Roberto Citran, Andrea Pennacchi    
location: Italia
voto: 2  

Regista e documentarista impegnato sui temi del lavoro (Il sangue verde) e dell'immigrazione (Io sono Li), Andrea Segre prova a raccontare il dramma di un rifugiato proveniente dal Togo (Folly) che ha perso la moglie subito dopo che questa ha partorito la loro bambina. L'uomo sembra essersi integrato nella piccola comunità del Trentino dove entra in contatto con l'adolescente Michele (Marchel), orfano di padre, e con il nonno di quest'ultimo (Mitterrutzner), presso il quale svolge piccoli lavori di falegnameria. Ma il suo sogno è quello di proseguire il viaggio oltre confine.
Con uno stile semidocumentaristico, Segre registra gli infinitesimali spostamenti emotivi del protagonista, mettendoli in relazione con la tranquilla vita della comunità montanara. Lo stile, figlio della lezione olmiana, è di una lentezza esasperante e letargica, i dialoghi frammisti ai pensieri del protagonista sono didascalici e meno che ordinari, e sull'intera operazione grava - complice anche la fotografia sempre ricercatissima di Luca Bigazzi - un'aura di gelida autorialità, che non suscita alcuna empatia verso nessuno dei personaggi.    

venerdì 29 dicembre 2017

Driver l'imprendibile (The driver)

anno: 1978   
regia: HILL, WALTER   
genere: poliziesco   
con Ryan O'Neal, Bruce Dern, Isabelle Adjani, Denny Macko, Tara King, Felice Orlandi, Rudy Ramos, Fidel Corona, William Walker, Victor Gilmour, Joseph Walsh, Frank Bruno, Sandy Brown Wyeth, Ronee Blakley, Richard Carey, Matt Clark, Nick Dimitri    
location: Usa
voto: 7   

Guardie e ladri. Un commissario di polizia (Dern) è da tempo ossessionato dalla cattura di un uomo (O'Neal) che fa il pilota per conto di vari rapinatori, ma che puntualmente esce pulito dalle azioni criminose. Prova a incastrarlo mettendo in mezzo un malvivente con molti conti in sospeso con la giustizia, ma le cose vanno ben diversamente dal previsto.
Fin dalla prima sequenza in montaggio alternato si vede il tocco di classe di un regista dal pedigree certificato, che riesce a creare tensione semplicemente mostrando due persone in attesa. Uno è il protagonista, l'altra una donna enigmatica, anch'ella senza nome (Isabelle Adjani, qui alla sua prima, incerta trasferta americana), una delle pochissime ad avere rapporti con lui. Il resto è cinema di genere assai ben confezionato, che resiste all'usura del tempo grazie a una serie di colpi di scena ben assestati e alle pirotecniche scene di inseguimento tra automobili e che coniuga un certo astrattismo - visibile a partire dall'assenza dei nomi dei personaggi - con l'action di cui i veri protagonisti sono gli stuntmen.

Socrates. Uno di noi

anno: 2014       
regia: CALOPRESTI, MIMMO 
genere: documentario 
con Sócrates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira    
location: Brasile, Italia
voto: 4 

Alto, magro, bello, ma soprattutto medico e politicamente impegnato: Sócrates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira, noto semplicemente come Socrates, è stato uno dei calciatori più amati del Brasile, attivo tra gli anni '70 e gli '80, capitano della nazionale carioca, nella quale collezionò una sessantina di presenze. Non è chiaro cosa abbia spinto Mimmo Calopresti, da qualche tempo convertitosi al documentario (Volevo solo vivere, La fabbrica dei tedeschi), a raccontare la faccia più popolare di Socrates, idolo del Corinthians, ritiratosi dal calcio nel 2004 e morto senza neppure arrivare a 60 ani di età, ma ancora vivissimo nella memoria dei tifosi brasiliani, alcuni dei quali lo celebrano come il più grande asso verdeoro, persino più di Pelè. Il documentario sembra essere solo lo spunto di una passione del tutto personale e assembla qualche immagine d'archivio con testimonianze raccolte da giornalisti, ex compagni di squadra e tifosi (compresi quelli della Fiorentina, dove giocò nella stagione 1984-1985), con una sintassi filmica poverissima e inutili incursioni del regista davanti alla camera da presa. Tanta povertà di racconto e montaggio non accenderebbero la curiosità neppure del calciofilo più ossessivo sicché del documentario rimangono ben poche cose: l'enfasi sulla democrazia corinthiana, una forma di autogestione della squadra che fece scuola e di cui Socrates fu l'artefice principale, e la tristissima eclissi di quell'uomo stroncato precocemente dall'alcol.    

mercoledì 27 dicembre 2017

Civiltà perduta (The Lost City of Z)

anno: 2016       
regia: GRAY, JAMES    
genere: avventura    
con Charlie Hunnam, Robert Pattinson, Sienna Miller, Tom Holland (II), Angus Macfadyen, Edward Ashley, Clive Francis, Ian McDiarmid, Franco Nero, Pedro Coello, Matthew Sunderland, Johann Myers, Aleksandar Jovanovic, Elena Solovej, Murray Melvin, Harry Melling    
location: Bolivia, Francia, Irlanda, Regno Unito
voto: 4    

Fu un'ossessione durata oltre un quarto di secolo quella che l'esploratore Percy Fawcett (Hunnam) ebbe nei confronti della città perduta di Z, in Bolivia. Militare scarsamente gallonato e figlio di una famiglia tutt'altro che blasonata, Fawcett venne inviato dalla corona d'Inghilterra a compiere dei rilevamenti in Sudamerica, per definire i confini tra i confliggenti stati del Brasile e della Bolivia. Qui, nonostante tutte le difficoltà (indios aggressivi, animali della foresta, piranha), arrivò con la sua equipe in un luogo nel quale scorse i resti di una civiltà evoluta della quale non si era mai saputo nulla prima di quel momento. Caparbiamente, nonostante una famiglia che con gli anni stava diventando sempre più numerosa e nonostante la chiamata al fronte durante la prima guerra mondiale, la sua ossessione non cessò di esistere, scontrandosi di continuo con i reazionari bianchi che negarono ogni possibilità di civiltà evolute al di sotto dell'equatore. Fawcett fece ritorno in quel luogo negli anni Venti del Novecento, dopo esserci stato per la prima volta all'inizio del secolo, portandosi dietro anche il maggiore dei figli.
Salutato dalla critica come un film di grande appeal, Civiltà perduta è un film di impianto classicissimo che pendola tra le aule nelle quali scienziati e accademici discettano sulla possibile fondatezza delle tesi di Fawcett, ritratti di famiglia in un interno e racconto d'avventura. Se la traccia narrativa che evidenzia il conservatorismo radicale degli scienziati inglesi, ben saldi nel paradigma colonialista, è l'elemento di maggiore interesse del film, ben più fiacca è quella del racconto avventuroso, costretto - senza quel pizzico di follia che fece grande il Fitzcarraldo di Herzog - nelle paludi dell'ovvio e della coazione a ripetere, nonostante la notevole fotografia.    

Così parlò De Crescenzo

anno: 2016   
regia: NAPOLI, ANTONIO    
genere: documentario    
con Luciano De Crescenzo, Renzo Arbore, Isabella Rossellini, Bud Spencer, Lina Wertmüller, Marisa Laurito, Renato Scarpa, Benedetto Casillo, Marina Confalone, Domenico De Masi    
location: Italia
voto: 7    

Ingegnere all'IBM fino al 1977, poi scrittore, regista, saggista, divulgatore, umorista: Luciano De Crescenzo, classe 1928, è un uomo eclettico, maestro d'ironia, napoletanissimo, instancabile tombeur de femmes, leggero senza essere frivolo, socievolissimo e devoto al culto dell'amicizia. Antonio Napoli gli dedica questo documentario che lo ritrae, ormai prossimo ai 90, nella sua casa - regno di oggetti stravaganti - e in particolare nel suo studio, dove il nostro continua infaticabile a scrivere saggi sulla filosofia greca e altre varietà tra le copertine dei libri disposte sulle pareti e sul soffitto. Libri tradotti in decine di lingue, che fanno da bordone alle testimonianze raccolte dai suoi amici più cari (il puntualissimo sociologo De Masi, ma anche Renzo Arbore, Marisa Laurito, Marina Confalone), assemblate con immagini di repertorio che ne raccontano anche il talento come disegnatore e narratore per i più piccoli, e con spezzoni tratti dai suoi film: quelli girati da regista (Così parlò Bellavista e 32 Dicembre in particolare) e quelli che lo hanno visto partecipare unicamente in veste di attore (Il Pap'occhio e F.F.S.S.). Tra rievocazioni dei grandi amori del passato (Isabella Rossellini, ma c'è anche un velatissimo richiamo a Moana Pozzi), aneddoti e la ricostruzione di una traiettoria fortunatissima e inusitata che - grazie al successo di Così parlò Bellavista e all'apparizione in Bontà loro - fecero di De Crescenzo un fenomeno pop sempre intelligente e garbato, passa un'ora e un quarto di racconto senza fronzoli né tentazioni agiografiche.    

martedì 26 dicembre 2017

Rocco

anno: 2016       
regia: DEMAIZIERE, THIERRY * TEURLAI, ALBAN  
genere: documentario  
con Rocco Siffredi, Rozsa Tano, Gabriele Galetta, Kelly Stafford, Mark Spiegler, Abella Danger, John Stagliano, James Deen    
location: Italia, Ungheria, Usa
voto: 1    

C'è Rocco Siffredi, icona indiscussa e inarrivabile del cinema porno tricolore. E poi c'è un film su di lui, girato da due cineasti francesi interessati a indagare l'unico fenomeno maschile del mondo dell'hard che sia stato capace di diventare fenomeno di costume, come era successo soltanto a John Holmes per via delle sue misure leggendarie. Non si sa se sia peggio il documentario o la retorica, l'emotività posticcia, le balle a propulsione termonucleare (il pornodivo dichiara di essere in procinto di lasciare le scene, salvo essersi smentito a pochi mesi dall'editing del documentario), la versione artefatta della famiglia da Mulino Bianco, i ricordi della madre "carabiniere" eppure amatissima, che avrebbe voluto vederlo prete. Nel film non c'è un solo riferimento alla carriera né al percorso che ha portato Rocco Tano (questo il suo nome all'anagrafe), figlio di una numerosa famiglia abruzzese di origini umili, sui set del cinema porno. Il film è una successione indistinta e letargica di scene riprese sul set, in automobile o in qualsiasi altra anonima location, prive di una sintassi minimamente leggibile, intervallate dalle dichiarazioni sempre lapidarie del protagonista, uno che si prende terribilmente sul serio, incapace di un minimo di ironia. Tra ragazzine cerebrolese e spesso fisicamente ipodotate sotto ogni aspetto, che calcano il set sperando di diventare delle star dell'hardcore, e un cugino parassita che ha lasciato il lavoro in banca per diventare l'assistente incapace e oggetto di continue rampognate di Siffredi, per un'ora e quaranta ci sorbiamo storielline inverosimili (il sesso a 8 anni, quello con una donna ottantenne fatto immediatamente dopo aver saputo della morte della madre) e racconti ruspanti di chi ha fatto sesso in modo piuttosto energico, a voler usare un eufemismo e nulla più. Prodotto di una noia mortale nel quale l'erotismo, grande assente, lascia completamente il campo a una mefitica aria da catena di montaggio del sesso.     

sabato 23 dicembre 2017

American Assassin

anno: 2017       
regia: CUESTA, MICHAEL  
genere: thriller  
con Dylan O'Brien, Michael Keaton, Sanaa Lathan, Shiva Negar, Taylor Kitsch, David Suchet, Navid Negahban, Scott Adkins, Sydney White, Kiera Bell, Chris Webster, Trevor White, Alaa Safi, Andrew Pleavin, Joseph Long, Khalid Laith, Tolga Safer, Jeff Davis, Mohammad Bakri, Ronan Summers, Yousef 'Joe' Sweid, Lamin Tamba, Jake Mann, Zackary Momoh, Bruno Bilotta, Gjevat Kelmendi, Vladimir Friedman    
location: Emirati Arabi, Italia, Libia, Polonia, Regno Unito, Romania, Spagna, Usa
voto: 6,5  

Mitch Rapp (O'Brien) è in procinto di sposarsi quando, durante una vacanza a Ibiza, un commando dell'Isis fa una strage sull'isola, uccidendo anche la sua fidanzata. Lui vuole vendetta a tutti i costi, simula di essersi radicalizzato e si infila nella stessa cellula terroristica che lo ha privato della sua donna, sgominandola. I servizi segreti americani hanno messo gli occhi su di lui, che è ben contento di partecipare a un durissimo corso di addestramento impartito da un ex marine dalle maniere brusche (Keaton). Con quest'ultimo, partirà per una missione che ha come obiettivo quello di togliere dalla circolazione un pericolosissimo criminale (Kitsch) che, con la scusa della vendita di un ordigno nucleare al governo iraniano, vorrebbe invece fare una strage in Italia.
Già con La regola del gioco Michael Cuesta aveva mostrato di avere buone doti di narratore di genere, messe a servizio di un cinema muscolare che non bada alle sottigliezze. Qui, tra torture, scazzottate e sparatorie, le quasi ore di film scorrono in un attimo, grazie soprattutto alla fluidità del plot narrativo (tratto dal romanzo di Vince Flynn), all'efficacia del montaggio e alla varietà di location, tra le quali va segnalata quella romana, ripresa sia nel centro storico che al serpentone di Corviale, che si aggiudica la sezione più consistente del film.    

venerdì 22 dicembre 2017

Identità sospette (Unknown)

anno: 2006       
regia: BRAND, SIMON  
genere: giallo  
con Jim Caviezel (James Caviezel), Greg Kinnear, Bridget Moynahan, Joe Pantoliano, Barry Pepper, Jeremy Sisto, Peter Stormare, Chris Mulkey, Clayne Crawford, Kevin Chapman, Mark Boone (Mark Boone Junior), Wilmer Calderon, David Selby, Jeffrey Daniel Phillips, Thomas Rosales Jr.    
location: Usa
voto: 4  

Cinque uomini si risvegliano intorpiditi all'interno di una sorta di enorme deposito sperduto nel deserto. Non si capisce cosa sia accaduto loro, né perché siano lì. Si sa soltanto che di mezzo c'è un rapimento, i buoni sono indistinguibili dai cattivi e tutti hanno momentaneamente perso la memoria a causa di una fuga di gas e non ricordano i loro ruoli se non a brandelli, mentre le verità riemerge a poco a poco.
Diretto dall'esordiente Simon Brand (un passato da regista di videoclip musicali), Identità sospette gioca sporco sulla sceneggiatura, facendo della trovata iniziale della perdita della memoria l'occasione per una trama con agnizione a rilascio lento, tra flashback e tanta uggia. In mezzo, storie di poliziotti infiltrati, bambini malati e banditi inetti.    

giovedì 21 dicembre 2017

Detroit

anno: 2017       
regia: BIGELOW, KATHRYN
genere: drammatico
con John Boyega, Will Poulter, Anthony Mackie, Hannah Murray, Jack Reynor, Ben O'Toole, Algee Smith, Jason Mitchell, John Krasinski, Jacob Latimore, Kaitlyn Dever, Laz Alonso, Malcolm David Kelley, Jeremy Strong, Tyler James Williams, Nathan Davis Jr., Peyton 'Alex' Smith, Joseph David-Jones, Ephraim Sykes, Leon G. Thomas III, Gbenga Akinnagbe, Chris Chalk, Austin Hébert, Miguel Pimentel, Samira Wiley, Mason Alban, Bennett Deady, Tokunbo Joshua Olumide, Benz Veal, Dennis Staroselsky, Darren Goldstein, Karen Pittman, Zurin Villanueva, Eddie Troy, Ricardo Pitts-Wiley, Joey Lawyer, Will Bouvier, Morgan Taylor, David Adam Flannery (David Flannery), Timothy John Smith, Kris Sidberry, Lizan Mitchell, Chris Coy, Ato Blankson-Wood, Glenn Fitzgerald, Henry Frost III, Frank Wood    
location: Usa
voto: 7

Nel luglio del 1967 la città di Detroit fu teatro di scontri accesi e prolungati tra la popolazione di colore e le forze dell'ordine. La segregazione su base razziale era ancora dura a morire, Malcolm X era stato assassinato appena due anni prima e i diritti civili per i neri erano un'idea non facile da inculcare nella testa dei bianchi. In quello stesso mese, nell'hotel Algiers, due ragazzine bianche e sei neri passano la serata in allegria quando la polizia di Detroit fa irruzione con metodi che farebbero quasi rimpiangere Bolzaneto. Tra torture, umiliazioni e brutalità di ogni genere, ci scappano anche i morti. I tre principali responsabili, aiutati dall'ignavia quasi senza eccezioni degli uomini dell'esercito, vanno a processo. Vietato lo spoiler sull'esito di quest'ultimo.
Sono ormai 15 anni che Katryn Bigelow ha imboccato la strada dell'impegno civile e del racconto della storia americana, lasciandosi alle spalle prodotti di genere (Blue steel, Point break, Strange days, Il mistero dell'acqua). Qui siamo stilisticamente a metà strada tra il riuscitissimo The hurt locker e il ripetitivo Zero Dark Thirty: Detroit è un film di durata fluviale (quasi due ore e mezza) con un lunghissimo prologo (accompagnato da molte immagini di repertorio), un intermezzo che è il nucleo del film capace di tenere ottimamente la tensione, e un epilogo da dramma giudiziario davvero troppo frettoloso. Meritevolissimo sul piano dei contenuti - una metafora sulla nuova ondata razzista dell'era Trump - il film pecca su quello della struttura, alla quale avrebbe giovato un taglio netto nella mezz'ora iniziale.    

mercoledì 20 dicembre 2017

Ferrante Fever

anno: 2017   
regia: DURZI, GIACOMO  
genere: documentario  
con Michael Reynolds, Francesca Marciano, Lisa Lucas, Ann Goldstein, Sarah McNally, Roberto Saviano, Nicola Lagioia, Elizabeth Strout, Jonathan Franzen, Giulia Zagrebelsky, Mario Martone, Roberto Faenza, Anna Bonaiuto    
location: Italia, Usa
voto: 6,5  

Elena Ferrante è un caso letterario fenomenale. Tradotta in ben 48 lingue, notissima negli Stati Uniti, alla maniera di Banksy la scrittrice vive da sempre nell'anonimato e sotto pseudonimo. Ben più schiva di Salinger e di Pynchon, a detta dei critici la Ferrante deve il suo successo a una scrittura fluida che si fonde magnificamente con contenuti profondi e toccanti. In Italia, Martone ha portato su pellicola una sua opera (L'amore molesto) e altrettanto ha fatto Faenza (I giorni dell'abbandono). Ora la scrittrice partenopea (pare…) ha attirato talmente l'attenzione da meritare un documentario imperniato su poche testimonianze (quella dello scrittore Jonathan Franzen, della sua traduttrice in lingua inglese, dei suoi editori, della trascurabilissima studiosa della sua opera Giulia Zagrebelsky, del rivale al premio Strega Nicola Lagioia, dei registi Faenza, Martone e Marciano e dell'immancabile prezzemolo Saviano) che cercano di restituirne un ritratto a tutto tondo. Quello stesso ritratto che viene opacizzato dalle belle animazioni di Mara Cerri e Magda Guidi che accompagnano la lettura di alcune pagine dei suoi libri (la voce è quella di Anna Bonaiuto) o da qualche estratto delle sue lettere. Si tratta di un'operazione forse poco adatta al grande schermo, ma sobria e nitida, capace di evitare gli accenti agiografici e al tempo stesso di appassionare all'enigma di questa scrittrice (ma è dubbia anche la sua identità sessuale: qualcuno vocifera che potrebbe trattarsi di un uomo…) persino il lettore meno incline alla narrativa.    

venerdì 15 dicembre 2017

Pronti a morire (The quick and the dead)

anno: 1995       
regia: RAIMI, SAM  
genere: western  
con Sharon Stone, Gene Hackman, Russell Crowe, Leonardo DiCaprio, Tobin Bell, Roberts Blossom, Kevin Conway, Keith David, Lance Henriksen, Pat Hingle, Gary Sinise, Mark Boone Junior, Olivia Burnette, Fay Masterson, Raynor Scheine, Woody Strode    
location: Usa
voto: 5  

Sotto il campanile di Redemption si sfidano, a ogni rintocco d'ora, vari pistoleri, nella folle kermesse voluta da un ferocissimo boss locale (Hackman). Tra questi, il figlio disconosciuto del boss (DiCaprio), che farebbe qualsiasi cosa per conquistarne la stima, un ex brigante trasformatosi in predicatore (Crowe), un indiano che sostiene di essere invulnerabile, un bounty killer di colore e altri ancora. Ma soprattutto, c'è una donna (Stone) - l'unica - arrivata lì come il Clint Eastwood de Il cavaliere pallido e assetata di vendetta per un episodio tragico di cui fu vittima durante l'infanzia.
Sam Raimi parte da un copione di Sam Moore per costruirci sopra un film monomodulare, interamente basato su una sparatoria. Se da una parte la tensione è tanta quanta ce ne sarebbe in una finale di coppa del mondo disputata ai calci di rigore, dall'altra il giochino alla lunga stanca e il vero movente della protagonista donna si palesa soltanto in zona Cesarini, per rimanere alla metafora calcistica. Qualche carrellata all'indietro di troppo, echi di Sergio Leone eccessivamente calcati e pistoleri trapassati con fori che sembrano prodotti da bisturi dotati di laser fanno a tratti scivolare il film su un registro involontariamente grottesco.    

giovedì 14 dicembre 2017

Loveless (Nelyubov)

anno: 2017       
regia: ZVYAGINTSEV, ANDREY 
genere: drammatico 
con Maryana Spivak, Alexey Rozin, Matvey Novikov, Marina Vasilyeva, Andris Keishs, Alexey Fateev    
location: Russia
voto: 7 

In Russia, una coppia sta per divorziare. I due si rimpallano l'affidamento del loro unico figlio dodicenne (Novikov). Il quale, all'improvviso, scompare, volatilizzandosi. Viene allertata la polizia, partono le ricerche, si spera nella complicità tra nonna materna e nipote, si fa persino visita all'obitorio. I due genitori mandano avanti le loro vite con i rispettivi compagni, come se la cosa non li riguardasse.
Andrey Zvyagintsev ha un abbonamento con i premi cinematografici. Non c'è film che non ne vinca uno. Non fa eccezione questo Loveless (premio della giuria al 70° festival di Cannes), spettacolo agghiacciante sull'assenza totale di sentimenti, che mette in scena il tristissimo rapporto tra un padre accidioso e irresponsabile (Rozin) e una madre in simbiosi totale con il proprio cellulare (Spivak), indifferenti alla sorte di un figlio che viene appellato, nel migliore dei casi, con espressioni carezzevoli come "quello spostato" o "impiastro". Ancora una volta Zvyagintsev torna sul tema della paternità, come già in The return e Leviathan, coniugandolo con quello di una sparizione. E ancora una volta lo fa senza alcuno sconto allo spettatore, mostrando un talento registico fuori dal comune, espressione di una nitidissima idea di cinema che sta tra l'eredità lasciata da Tarkovskij e quella di Bergman.    

lunedì 11 dicembre 2017

Smetto quando voglio - Ad Honorem

anno: 2017       
regia: SIBILIA, SYDNEY   
genere: commedia   
con Edoardo Leo, Valerio Aprea, Paolo Calabresi, Libero De Rienzo, Stefano Fresi, Lorenzo Lavia, Pietro Sermonti, Marco Bonini, Rosario Lisma, Giampaolo Morelli, Peppe Barra, Greta Scarano, Luigi Lo Cascio, Valeria Solarino, Neri Marcorè    
location: Italia
voto: 6   

Arrivata al terzo episodio, la banda capitanata dall'ex ricercatore universitario Pietro Zinni (Leo) ha il compito di sventare un attentato alla Sapienza di Roma. Qui un ex professore della stessa (Lo Cascio) punta sull'occasione del conferimento di una laurea honoris causa proprio all'attuale compagno della donna di Pietro (Solarino), che nel frattempo si è rifatta una vita, per poter mettere in atto i suoi intenti stragisti. La banda avrà bisogno della complicità di un altro ex professore universitario (Marcorè), uno che si fa chiamare er Murena, l'unico a sapere dove sia possibile trovare l'uomo assetato di vendetta.
Lasciati ormai sulle quinte gli elementi linguistici che avevano fatto la fortuna del primo episodio, quelli legati ai paradossi di accademici supertitolati costretti a dei mcjobs, il film di Sibilia punta soprattutto sul ritmo e su una trama nera dagli accenti grotteschi. Un bel salto di qualità rispetto al precedente, fiacchissimo episodio, se non fosse che ancora una volta il regista e la sua squadra di sceneggiatori (Francesca Manieri, Luigi Di Capua) dimostrano di sapere poco o nulla del mondo accademico, verso il quale non hanno il coraggio di affondare, sul finale, il colpo che sarebbe stato più che lecito aspettarsi. Al contrario, l'ultima scena va a coronare il tema con un anelito di speranza del tutto malriposto.    

venerdì 8 dicembre 2017

L'insulto (L'insulte)

anno: 2017       
regia: DOUEIRI, ZIAD  
genere: drammatico  
con Adel Karam, Kamel El Basha, Camille Salameh, Rita Hayek, Diamand Bou Abboud, Talal Jurdi, Christine Choueiri    
location: Libano
voto: 9  

"Sei un cane", sentenzia un ingegnere palestinese (El Basha) che lavora in nero a Beirut, all'indirizzo di un meccanico cristiano maronita (Karam), al quale ha riparato la grondaia che butta acqua sui passanti e che, per tutta risposta, frantuma il tubo appena riparato. Il meccanico esige che l'altro si scusi e ritiri l'insulto, ma quest'ultimo nicchia e il caso, dopo un'escalation tra costole rotte e frasi come "magari Sharon vi avesse sterminati tutti", finisce in tribunale, dove i due verranno difesi su sponde opposte da un principe del foro (Salameh) e da sua figlia (Abboud), per poi diventare un caso politico nazionale sul quale dovrà intervenire persino il presidente della Repubblica.
Prendendo spunto da un episodio autobiografico, il regista libanese - che al rientro in patria dopo la presentazione del film a Venezia è stato bloccato dalla polizia - torna sulla questione palestinese (rispetto alla quale il cinema ci ha regalato opere importanti e commoventi come Private, Il giardino di limoni e Il figlio dell'altra) mostrandone tutte le contraddizioni. Un conflitto mai sopito nonostante sia terminato nell'ormai lontano 1990, pur continuando a covare nella memoria delle vecchie generazioni. Doueiri lo trasforma in un dramma giudiziario in gran parte ambientato in tribunale, un apologo sul tema del perdono nel quale entrambe le parti hanno ferite ancora aperte, tra accuse di filosionismo e i ricordi tragici dei massacri di Damur ai danni di una popolazione cristiana inerme ma anche di quelli perpetrati dalle milizie cristiane libanesi guidate da Bashir Gemayel. Se i contenuti del film provocano nello spettatore un coinvolgimento emotivamente dilaniante, la forma non è da meno: un cinema di parola dal ritmo serratissimo, servito da una squadra di attori straordinaria, tra i quali Kamel El Basha si è aggiudicato la Coppa Volpi a Venezia.    

giovedì 7 dicembre 2017

Suburbicon

anno: 2017       
regia: CLOONEY, GEORGE
genere: noir
con Matt Damon, Julianne Moore, Noah Jupe, Glenn Fleshler, Alex Hassell, Gary Basaraba, Oscar Isaac, Jack Conley, Karimah Westbrook, Tony Espinosa, Leith M. Burke, Megan Ferguson, Michael D. Cohen, Steve Monroe, Dash Williams, Ellen Crawford, Carter Hastings, Steven M. Porter, Diane Dehn, Robert Pierce, Pamela Dunlap, Nancy Daly, Mark Leslie Ford, Brady Allen, Vince Cefalu, Steven Shaw, Hope Banks, Don Baldaramos, Josh Meyer, Frank Ferruccio, Johnny Meyer, Jack Fisher, Brandon LaFleur, Blake Altounian, Frank Califano, Angus Sepenuk    
location: Usa
voto: 8

Ci sono i fratelli Coen, e si vede benissimo, dietro la sceneggiatura del sesto film da regista di George Clooney. Il sodalizio tra i due folletti hollywoodiani e uno dei maggiori esponenti del pensiero liberal del cinema americano parte dal 2000 (Fratello, dove sei?) e approda qui al suo risultato migliore. Siamo alla fine degli anni '50 nell'immaginaria cittadina di Suburbicon, molto wasp, percorsa da un razzismo tutt'altro che silenzioso. E infatti mentre la prima famiglia di neri appena arrivata a Suburbicon si ritrova sotto assedio con la casa messa a ferro e a fuoco dopo una lunga e pesantissima discriminazione, il loro vicino (Damon) organizza, in combutta con due balordi, l'assassinio della moglie (Moore) costretta sulla sedia a rotelle, per farsela con la gemella di questa, con conseguente truffa ai danni dell'assicurazione. Il tutto sotto gli occhi increduli di un bambino innocente (Jupe), l'unico bianco capace di fare amicizia con vicino di casa che ha la pelle di un altro colore.
Tra i coeniani Fargo, Ladykillers e Burn after reading, il film di Clooney gioca sulla commedia nera per raccontarci metonimicamente i prodromi della nuova ondata razzista impersonata da Trump. Sebbene la sottotrama che coinvolge la famiglia nera presa di mira dai vicini bianchi non sempre riesca a fondersi fluidamente con l'ossatura principale del racconto, il plot scorre a meraviglia, assemblando sfumature grottesche, tentazioni splatter ed eccessi macchiettistici su un impianto ottimamente calibrato e servito da più di un'invenzione in fase di fotografia e montaggio.    

sabato 2 dicembre 2017

Il libro di Henry (The Book of Henry)

anno: 2017       
regia: TREVORROW, COLIN   
genere: thriller
con Naomi Watts, Jaeden Lieberher, Jacob Tremblay, Sarah Silverman, Dean Norris, Lee Pace, Maddie Ziegler, Tonya Pinkins, Bobby Moynihan, Geraldine Hughes    
location: Usa
voto: 3,5   

Prendiamo tre argomenti forti - un cancro che colpisce un bambino di 11 anni, il genio e il pedofilo - e vediamo che cosa succede. Sembra rispondere a questo diktat il film di Colin Trevorrow tratto dal romanzo di Gregg Hurwitz, che racconta la storia di una madre scapestratissima (Watts) con figli a carico. Il più grande, l'undicenne Henry (Lieberher), è appunto un genio e governa le finanze di casa (anche da morto), ha una simpatia per una compagna di classe che però viene molestata dal patrigno (Norris). Quando denuncia i suoi sospetti alla preside si vede rispedire le accuse al mittente: l'uomo, a parte il fatto di essere un poliziotto, è un personaggio molto in vista nella comunità. Il ragazzo passa a miglior vita, lasciando dettagliatissime istruzioni alla madre, scrupolosamente annotate sul libro del titolo, affinché quest'ultima faccia giustizia da sé.
Film insulso a cavaliere tra noir, fiaba dark con risvolti da realismo magico e melodrammone, con personaggi monodimensionali messi a servizio di un plot che è un autentico scult.    

venerdì 1 dicembre 2017

Amori che non sanno stare al mondo

anno: 2017       
regia: COMENCINI, FRANCESCA
genere: sentimentale
con Lucia Mascino, Thomas Trabacchi, Carlotta Natoli, Valentina Bellè, Iaia Forte, Camilla Semino Favro    
location: Italia
voto: 8,5

Claudia (Mascino) conosce Flavio (Trabacchi) durante una conferenza. Entrambi sono docenti universitari. Dopo la schermaglia iniziale, i due vanno a pranzo insieme. Lei gli dichiara precipitosamente il suo amore. Lui, gratificato, nicchia ma sta al gioco. Sboccia l'amore. Durerà sette anni, tra alti e bassi, passione e sofferenze. Una frase di troppo fa traboccare un vaso stracolmo. Lui la lascia e si trova una più giovane che non lo coinvolge ma non lo fa soffrire.
Dopo vari film impegnati (Carlo Giuliani, ragazzo, Mi piace lavorare, A casa nostra, In fabbrica, Lo spazio bianco) e varie puntate di Gomorra - La serie, Francesca Comencini gira la sua seconda commedia sentimentale con ampie venature autobiografiche, arrivando a realizzare la sua opera di gran lunga migliore. Nel personaggio di Claudia, figlio della pagina letteraria della stessa Comencini, c'è tutta la sofferenza e il tormento di una donna disperatamente innamorata che si strugge interrogandosi sui motivi dell'abbandono. Una donna intemperante, spesso sopra le righe. Per lei ogni esitazione è un segno d'ambiguità, ogni silenzio dell'altro una mortificazione della sua identità, mentre lui rimane indissolubilmente legato al suo bisogno di libertà, al suo aplomb sempre così apparentemente distaccato. La Comencini è straordinariamente efficace nel restituire tutte le sfumature dei suoi personaggi, curando moltissimo anche quelli in secondo piano (su tutti, quello di Carlotta Natoli,  che nella vita è la moglie di Trabacchi, e che qui troviamo nella parte dell'amica più intima di Claudia), senza mai prendersi eccessivamente sul serio. Anzi: disseminando il film con ampie dosi di ironia, momenti esilaranti (su tutti, quello del tentativo di non appoggiarsi alla tavoletta in un bagno pubblico), deviazioni grottesche (come nel bianco e nero della lezione sull'eterocapitalismo, una aritmetica sul mercato matrimoniale delle donne ultraquarantenni), scorci onirici abbinati a richiami bergmaniani (il fantasma di Claudia nella nuova vita di Flavio). Sicché il film, a dispetto del registro da commedia, propone una sorta di apologo sulla guerra dei sessi, una storia di amour fou che è anche una serissima lezione sull'elaborazione del lutto: un tripudio quasi schizofrenico di trovate stilistiche e mezzi toni, nel quale trovano posto escursioni saffiche, anonimi filmini in bianco e nero e scorci romani poco frequentati al cinema, a cominciare dal Macro di via Nizza.
    

domenica 26 novembre 2017

L'amore rubato

anno: 2016       
regia: BRASCHI, IRISH   
genere: drammatico   
con Stefania Rocca, Elena Sofia Ricci, Gabriella Pession, Chiara Mastalli, Elisabetta Mirra, Francesco Montanari, Alessandro Preziosi, Emilio Solfrizzi, Antonello Fassari, Massimo Poggio, Antonio Catania, Daniela Poggi, Cecilia Dazzi, Luisa De Santis, Emanuel Caserio, Renato Raimo    
location: Italia
voto: 1,5   

Stupratori, violenti, assassini, stalker, carnefici: grazie al film di Irish Braschi, liberamente ispirato all'omonima raccolta di racconti di Dacia Maraini, possiamo finalmente dirci dotati di molti punti fermi sulla psicologia del maschio italiano. Qui il soggetto in questione viene presentato in maniera rigidamente monodimensionale e messo a servizio di un film-pamphlet nel quale le sfumature non hanno alcun diritto di cittadinanza. Tra il manager facoltoso (Preziosi) che massacra di botte la moglie (Rocca), il gestore di una palestra (Fassari) che stupra una sua giovanissima dipendente (Mastalli), la liceale stuprata dal solito branco di compagni nell'omertà generale, l'attrice (Pession) ghettizzata dentro le mura domestiche dalla prepotenza del compagno e la donna di mezza età (Ricci) brutalizzata da un amante geloso (Poggio), ce n'é per tutti. Preoccupatissima di stare fedelmente nel solco dei cliché più triti e di assecondare rigidamente il teorema del film, la regia perde completamente di vista tanto quel minimo di approfondimento psicologico che ci si aspetterebbe da un tema del genere, quanto l'aspetto meramente filmico. Nessuno degli interpreti sembra credere al ruolo e sull'insieme grava un'aura del tutto posticcia, enfatizzata dalla presenza inopportuna di Sua Retorica, madame Boldrini. Un tema così importante avrebbe meritato ben altro lavoro di cesello.    

sabato 25 novembre 2017

Gli sdraiati

anno: 2017       
regia: ARCHIBUGI, FRANCESCA
genere: commedia
con Claudio Bisio, Gaddo Bacchini, Cochi Ponzoni, Antonia Truppo, Gigio Alberti, Barbara Ronchi, Carla Chiarelli, Federica Fracassi, Gianluigi Fogacci, Sandra Ceccarelli, Donatella Finocchiaro, Gaddo Bacchini, Ilaria Brusadelli, Matteo Oscar Giuggioli    
location: Italia
voto: 3

La convivenza (quasi) impossibile tra un padre milanese sottaniere e separato da sette anni dalla moglie (Bisio), noto personaggio televisivo, e il figlio diciassettenne (Bacchini), perennemente disordinato, sbracato sul divano o sul letto, in costante compagnia di alcuni compagni di scuola (con i quali, alla faccia del politically correct e del totale svuotamento semantico nella scelta della parole, si chiamano tra loro "i froci per sempre"), innamorato di una coetanea mezza dark e mezza emo ma androide per intero (Brusadelli), refrattaria a qualsiasi capacità comunicativa.
La Archibugi continua a strizzare l'occhio alla sinistra più salottiera e radical chic - quella che si riempie la bocca di questioni sociali e poi dà in mano la carta di credito ai figli diciassettenni - con risultati imbarazzanti. Liberamente, moooolto liberamente tratto dall'omonimo romanzo semi-autobiografico di Michele Serra, il film della 57enne regista romana ne stravolge lo spirito, vi innesta una sottotrama che diventa l'asse portante dell'opera (il genitore teme che la ragazza con cui il figlio ha una relazione sia la sorellastra di quest'ultimo, frutto di una scappatella di alcuni anni prima) e perde completamente di vista l'anima del fulminante libello originale, dimenticandone l'ironia ma soprattutto ignorando il perno del testo originale, quel grido disperato di un genitore che non sa più cosa fare con questa generazione di sdraiati, per proporre una messa in scena cerchiobottista nella quale i padri sono dei Peter Pan irresponsabili e tutti i mali dei figli sono attribuibili alle separazioni troppo facili. Sicché, tolta la figura bonaria del suocero del protagonista (chi si rivede: Cochi Ponzoni!), tutti gli altri personaggi risultano indigesti e l'unica risposta possibile richiamata dalla generazione che qui viene portata sul grande schermo è quella di un sonoro ceffone, come suggerisce un degente dell'ospedale che i "froci per sempre" hanno scambiato per una discoteca. Una generazione che continua a essere trattata con superficialità estrema, come già in Genitori & figli: agitare bene prima dell'uso (Veronesi), Gli sfiorati Rovere), Fino a qui tutto bene (Johnson) e Questi giorni (Piccioni): e così sarà ancora, almeno fino a quando li si vorrà vedere in chiave di commedia, quando invece di tratta di un autentico dramma sociale (e infatti i ritratti migliori sono declinati in questa chiave, vedi Il capitale umano e I nostri ragazzi). Alla Archibugi, che continua a concentrarsi su ambienti ultraborghesi, dice nulla il concetto di neet?    

venerdì 17 novembre 2017

Fortunata

anno: 2017   
regia: CASTELLITTO, SERGIO
genere: drammatico
con Jasmine Trinca, Stefano Accorsi, Alessandro Borghi, Edoardo Pesce, Hanna Schygulla, Nicole Centanni    
location: Italia
voto: 5

Mamma Roma stavolta si chiama Fortunata (Trinca), abita a Torpignattara, periferia romana, fa la parrucchiera a domicilio, veste sempre in minigonna, ha una figlia difficile da gestire e che sputa sempre addosso ai compagni di scuola (Centanni), è separata dal marito, una guardia giurata, che vorrebbe riaverla con sé (Pesce). Il suo sogno nel cassetto è quello di aprire un negozio da parrucchiera, ma i debiti la sovrastano, i problemi anche e l'unica persona che la sostiene è un tatuatore con qualche disordine psichico (Borghi) e madre malata di Alzheimer a carico (Schygulla). Nell'androceo di Fortunata entra anche Patrizio (Accorsi), psicologo che prende in carico il caso della bambina per poi innamorarsi della madre. Ma l'instabilità emotiva di Fortunata gli rende impossibile sottrarsi alla tempesta.
Tratto anche stavolta da un racconto della moglie Margaret Mazzantini rimasto a lungo nel cassetto, il sesto film da regista di Sergio Castellitto vede di nuovo al centro della scena una donna (Non ti muovere, Venuto al mondo, Nessuno si salva da solo) alla ricerca di sé stessa. È un festival di letteratura banale che gronda dai dialoghi e di situazioni spesso inverosimili, ossimoricamente calate in un contesto verista con qualche acuto tra l'onirico e il metafisico (con tanto di stridente riferimento colto all'Antigone), sempre legato ai trascorsi turbolenti vissuti dai personaggi. Tra questi ultimi, si distinguono ancora una volta quello interpretato da Edoardo Pesce, credibilissimo nella parte di un marito ancora legatissimo alla ex moglie, e dal camaleontico Alessandro Borghi. È stata invece Jasmine Trinca l'unica a portare a casa un premio: il massimo alloro vinto come migliore attrice al festival di Cannes. Tutta sopra le righe, occhi bistrati e capelli mesciati alla bell'e meglio, perennemente sboccata, l'attrice romana ha anche avuto l'ardire di mostrare il suo corpo androgino alla cinepresa. Misteri della settima arte, come quello della sua attività di attrice. Meno male che sul finale arriva Vasco con la sua Vivere. Altrimenti ci sarebbe voluto il Maalox.    

sabato 11 novembre 2017

The Place

anno: 2017       
regia: GENOVESE, PAOLO  
genere: fantastico  
con Valerio Mastandrea, Marco Giallini, Alba Rohrwaker, Vittoria Puccini, Rocco Papaleo, Silvio Muccino, Silvia D’amico, Vinicio Marchioni, Alessandro Borghi, Sabrina Ferilli, Giulia Lazzarini    
location: Italia
voto: 5,5  

Dalla tavola alla tavola calda: è in un piccolo locale chiamato The place (nella realtà sito a Roma, in via Gallia 70) che Paolo Genovese, reduce dallo strepitoso successo di Perfetti sconosciuti, ambienta la sua prova forse più difficile, costruendo un film che, per molti versi, sembra ricalcare l'impostazione del precedente, ma in una versione che sta tra il kammerspiel e il cinema indie.
Nel locale si avvicendano varie figure, di giorno e alla sera tardi, con la pioggia o con il sole: tutti postulanti disposti a mettere in pratica le istruzioni scellerate fornite da uno strano personaggio (Mastandrea), una sorta di diavolo che non ha nulla di mefistofelico me che gioca a fare Dio, tra un pasto e l'altro serviti dall'unica cameriera del tavola calda (Ferilli). Chi chiede che al proprio figlio torni la salute (Marchioni) o al proprio marito la memoria (Lazzarini), chi, più modestamente, vorrebbe portarsi a letto una fotomodella (Papaleo) o vorrebbe diventare più bella (D'Amico), chi vorrebbe recuperare il rapporto con il figlio (Giallini) e chi affrancarsi definitivamente dal padre (Muccino), chi ritrovare la vista perduta (Borghi) oppure Dio (Rohrwacher). A ciascuno di loro, questa sorta di deus ex machina chiede di fare cose impensabili, dal mettere una bomba in una discoteca all'uccidere una bambina.
Tratto da una serie tv americana (The Booth at the End), The place è un film ambiziosissimo ma largamente irrisolto. All'efficacia dell'intreccio in chiave di thriller psicologico costruito come un apologo a sfondo morale sulle ambizioni umane e alla fluida intersezione delle diverse storie, non corrisponde una resa plausibile sul piano delle pretese filosofiche, nient'affatto sorrette adeguatamente sul piano della scrittura. Al contrario, i dialoghi sono spesso lapidari - "Lei crede in Dio?" "Diciamo che io credo nei dettagli", oppure "Lei è un mostro" "Io do da mangiare ai mostri", e così via - e la dialettica tra caso e necessità, perno del film, è trattata con superficialità. Ma l'ambientazione, la recitazione (tutti gli attori, con l'eccezione di Mastandrea, hanno recitato per una sola giornata) e il ritmo narrativo sono senz'altro punti a favore e comunque si intravede il tentativo di trovare nuove strade.    

giovedì 9 novembre 2017

Borg McEnroe

anno: 2017       
regia: METZ PEDERSEN, JANUS   
genere: biografico   
con Shia LaBeouf, Sverrir Gudnason, Stellan Skarsgård, Tuva Novotny, Ian Blackman, Robert Emms, Scott Arthur, David Bamber, Jane Perry, Claes Ljungmark, Janis Ahern, Demetri Goritsas, Jackson Gann, Björn Granath, Peter Hosking, Mats Blomgren, Thomas Hedengran, Val Jobara, Christopher Wagelin, James Sobol Kelly, Bob Boudreaux, Tom Datnow, Leo Borg, Dan Anders Carrigan, Emelie Dahlskog, Lucy Ter-Berg, Julia Marko-Nord, Jason Forbes, Markus Mossberg, John Runestam, Richard Drazny, Inger Järpedal, Christopher Fänge, Mohamed Shabib, Igor Tubic, Vincent Eriksson    
location: Regno Unito, Svezia, Usa
voto: 7   

Per capire quanto uno sport possa essere elitario basta prendere in considerazione tre parametri: che sia praticato singolarmente (la scherma) o in gruppo (il rugby), che abbia o meno una mediazione strumentale (la lotta greco-romana, per esempio, non ce l'ha) e che tenga o meno separati i corpi degli atleti (nel volley lo sono, nella pallacanestro no). Il tennis, al quale quarant'anni fa Giorgio Gaber dedicò l'omonima canzone al vetriolo, è uno di quegli sport ultraelitari (come il golf, il surf, lo sci, l'equitazione) per i quali, come diceva lo stesso Gaber "per essere bravi […] non è che bisogna essere proprio imbecilli, però aiuta" (stavolta il riferimento è a Gli inutili). Così, da Nando Cicero a Woody Allen, non si contano le centinaia e centinaia di film che lo mettono in scena. Borg McEnroe, di Janus Metz Pedersen, infittisce la lista andando a raccontare la sfida, davvero epocale, tra Björn Borg, l'asso svedese che tra Grande Slam e Wimbledon aveva polverizzato tutti i precedenti record di vittorie, e l'astro nascente del tennis statunitense, John McEnroe. Il ghiaccio e la fiamma: amatissimo il primo, detestato a causa delle sue continue e clownesche intemperanze sul rettangolo di gioco il secondo. Il film si concentra sulla finale che li vide rivali per la prima volta a Wimbledon, nel 1980, dove Borg giunse con quattro titoli consecutivi. Incentrato prevalentemente sulla figura dello scandinavo, il lungometraggio di Pedersen ne racconta anche l'infanzia e l'adolescenza (e qui l'interprete è proprio uno dei figli di Borg), il rapporto quasi filiale stabilito col mentore Lennart Bergelin (Skårsgard), il radicale cambiamento di modalità espressive (da giovane Borg sembra fosse vulcanico e iracondo come McEnroe), ma anche se non soprattutto la solitudine. D'altronde, che il ragazzo che abbandonò il tennis a soli 26 anni non avesse tutti i venerdì in ordine lo dimostra il matrimonio che ebbe qualche anno più tardi con Loredana Bertè. Da allora, tanta cocaina, la bancarotta, la vendita all'asta dei suoi trofei ma anche l'amicizia proprio con McEnroe (i due si fronteggiarono 14 volte: 7 vittorie a testa), che, nel frattempo, si era dato una regolata.
Lento, tendenzialmente verboso ed estetizzante nella prima parte, il film decolla nella seconda, rendendo palpitante il momento clou della finale di Wimbledon, tutta giocata sul filo di un equilibrio assoluto tra i due contendenti e metafora efficacissima di uno sport elegantissimo, "per gentiluomini", che è l'emblema dell'individualismo più parossistico.    

martedì 7 novembre 2017

Going Clear: Scientology e la prigione della fede (Going Clear: Scientology and the Prison of Belief)

anno: 2015   
regia: GIBNEY, ALEX
genere: documentario
con Paul Haggis, Lawrence Wright, Marty Rathbun, Mike Rinder, Jason Beghe, Sylvia "Spanky" Taylor, Sarah Goldberg, Tom DeVocht, Monique Rathbun, Tony Ortega, Kim Masters    
location: Usa
voto: 5

Negli anni '50 del secolo scorso L. Ron Hubbard, un ex militare americano, un imbonitore con una massiccia predisposizione alla fandonia, scrisse un libro, Dianetics, nel quale enunciava i principi etici di quella che di lì a poco sarebbe diventata una vera e propria religione organizzata, o una setta, se si preferisce: la Chiesa di Scientology. Il ciarlatano prometteva il completo sviluppo psicoemotivo dell'uomo, il raggiungimento dello stato di "clear" (una sorta di veggenza che permette di mettere al proprio posto ciascun elemento della vita passata, senza pendenze psichiche ulteriori) a due condizioni da nulla: il versamento di somme ingentissime nelle casse della Chiesa - cioè nelle sue - e l'auditing. Quest'ultimo altro non è che una estorsione delle confidenze più intime degli adepti mascherata da "svuotamento interiore" (non sfuggiranno le somiglianze con la pratica della confessione nel cristianesimo…). Peccato che quelle stesse confessioni vengano poi usate per ricattare gli eventuali "disconnessi" o per tormentare le cosiddette "persone soppressive" coloro, cioè, che - essendo in contatto con qualche adepto di Scientology - mettono in aperta discussione i principi della Chiesa. A questa amenità pensate per foraggiare prima le tasche del fondatore e in seguito quelle del monarca che gli succedette, David Miscavige, si aggiunsero successivamente le violenze, le persecuzioni, la coartazione e le torture con la chiusura in quella specie di lager che è il "buco" nei confronti delle persone che intendevano lasciare la Chiesa.
Il documentario di Alex Gibney - al cui invito non hanno risposto né John Travolta né Tom Cruise, i due più noti esponenti di Scientology - è encomiabile per la scelta del soggetto e assai coraggioso ma ben al di sotto di altri prodotti dello stresso regista (Enron, Taxi to the dark side, Freakonomics, Mea Maxima Culpa) sul piano realizzativo: prolisso, quasi interamente affidato alle interviste dei fuoriusciti dalla Chiesa (tra questi, Paul Haggis), monocorde nel ritmo, il film sulle prigioni della fede richiede un considerevole sforzo di concentrazione per sottrarsi allo sbadiglio continuo, sebbene i sussulti, in quell'orgia di simboli neonazisti e in quella kermesse ipertrash che sono i raduni guidati da Miscavige, siano inevitabili.    

sabato 4 novembre 2017

Fuga di mezzanotte (Midnight express)

anno: 1978   
regia: PARKER, ALAN   
genere: drammatico   
con Brad Davis, Norbert Wiesser, Paul Smith, Randy Quaid, Irene Miracle, Mike Kellin, John Hurt, Bo Hopkins, Peter Heffrey, Michael Ensign, Franco Diogene, Paolo Bonacelli, Gigi Ballista    
location: Turchia
voto: 8   

Mamma li turchi. Il cesso alla turca. Fumare come un turco. Ci sarà pure un motivo se esistono queste locuzioni. Quando, agli inizi degli anni '80, vidi per la prima volta il pluripremiato film di Alan Parker al cinema, i miei pregiudizi sui turchi si radicarono. Già, perché Fuga di mezzanotte racconta la storia vera, per quanto romanzata, di Billy Hayes (Davis), giovane americano pizzicato nel 1970 a Istanbul con un ingente quantitativo di droga. Fermato e rinchiuso in galera dopo un processo sommario, gli venne rincarata la dose con un'aggiunta di pena che arrivò all'ergastolo. Erano i muscoli che la presidenza Sunay, in rotta di collisione con Nixon, cercava di mostrare rispetto all'impegno contro la droga, la via per conquistarsi credibilità sul piano internazionale. La vicenda di Billy divenne il pomo della discordia tra Stati Uniti e Turchia, costando anni di durissimo carcere al protagonista, tra soprusi di ogni genere, sodomia coatta, coltellate nel sedere (la famigerata "vendetta turca"), violenze.
Parker affida il ruolo di protagonista al giovane e sconosciuto attore esordiente Brad Davis (morto poco più che quarantenne di Aids dopo una carriera trascurabile), poco adatto al phisique du role, mentre il copione di Oliver Stone non fa sconti allo spettatore, spinge sul pedale della violenza ed esaspera in senso manicheo la vicenda originale, dipingendo i turchi come elementi di un popolo infido, reazionario, sanguinario e brutale. Ma a distanza di anni il film tiene grazie alla sua vis polemica, a un buon ritmo e a un motivo d'interesse non del tutto secondario: quello di annoverare un cast in parte Italiano (Franco Diogene, Gigi Ballista, Paolo Bonacelli), dovuto al fatto che le riprese vennero realizzate a Malta, per evitare noie diplomatiche.

lunedì 30 ottobre 2017

Mistero a Crooked House (Crooked House)

anno: 2017       
regia: PAQUET-BRENNER, GILLES 
genere: giallo 
con Glenn Close, Terence Stamp, Max Irons, Gillian Anderson, Christina Hendricks, Stefanie Martini, Julian Sands, Amanda Abbington, Christian Mckay, Honor Kneafsey, Roger Ashton-Griffiths, John Heffernan, Preston Nyman, Andreas Karras, Gino Picciano, Jacob Fortune-Lloyd, David Kirkbride, Petros L. Ioannou, Tina Gray, Jenny Galloway, David Cann    
location: Egitto, Regno Unito
voto: 3 

Inghilterra, anni Cinquanta. L'anziano magnate Aristide Leonides (Picciano) viene trovato morto nella sua faraonica residenza, nella quale vivono come parassiti la sua seconda, giovane moglie (la giunonica Christina Hendricks), i due figli con le rispettive consorti, tre nipoti, una governante e una cognata malaticcia e avanti con gli anni (Close). La più grande delle nipoti (Martini), che in seguito a un accertamento si scoprirà essere l'unica erede dell'enorme patrimonio del tycoon, ingaggia un ispettore di Scotland Yard (lo scialbo Max Irons) col quale, tempo prima, aveva avuto una breve relazione a Il Cairo. Il giovane investigatore, come da protocollo, interroga tutti, scoprendo che ognuno di loro aveva una potenziale buona ragione per assassinare l'anziano plutocrate.
Tratto da quello che Agatha Christie considera il suo romanzo giallo migliore, il film di Gilles Paquet-Brenner (La chiave di Sara, Dark places), ci propone i topoi consolidati dello stile narrativo dell'autrice: spargimento a pioggia dei sospettati, omertà, cospirazione. L'insieme viene confezionato in una veste elegante, con scenografie sontuose in ambienti damascati, ma senza alcun guizzo, piatta e verbosa fino all'esasperazione, con una brusca agnizione che arriva su un finale che cambia improvvisamente di ritmo.    

venerdì 27 ottobre 2017

La ragazza nella nebbia

anno: 2017       
regia: CARRISI, DONATO   
genere: giallo   
con Toni Servillo, Alessio Boni, Lorenzo Richelmy, Galatea Ranzi, Michela Cescon, Lucrezia Guidone, Daniela Piazza, Ekaterina Buscemi, Thierry Toscan, Jacopo Olmo Antinori, Marina Occhionero, Sabrina Martina, Antonio Gerardi, Greta Scacchi, Jean Reno    
location: Italia
voto: 6,5   

Nel paesino di Avechot, in mezzo alle Alpi, l'ispettore Vogel (Servillo) si presenta nel mezzo della notte al cospetto di uno psichiatra (Reno). C'era nebbia, ha avuto un incidente ma dice di non ricordare nulla. Dietro c'è una complessa storia - raccontata anche con lunghi flashback - che parte dalla sparizione di una quindicenne dalla comunità montana, passa per la congregazione religiosa che rende omertoso l'intero paese e arriva a un professore (Boni) stabilitosi lì da poco con la famiglia, l'unico a finire sul banco degli imputati.
Tratto - come recitano con magniloquenza i titoli di coda - dal best seller "internazionale" di Donato Carrisi, La ragazza nella nebbia viene portato sul grande schermo dallo stesso autore, il quale dimostra ampie capacità narrative e di sapere dare una cospicua dose di suspense al racconto. Il tema è quello della vanità, mescidato in chiave di apologo con quello della dialettica tra apparenza e realtà con riflessioni non banali. I problemi sono due: la sceneggiatura, arzigogolata in maniera compiaciuta e capace di arrivare a un finale davvero deludente e, ancor di più, la direzione degli attori: Toni Servillo continua a fare Toni Servillo in qualsiasi film, gli altri sono diretti con mano da mestierante e solo Alessio Boni ci mette un po' di impegno, insieme a Jean Reno che recita nel nostro idioma in presa diretta.    

giovedì 26 ottobre 2017

In arte Nino

anno: 2017   
regia: MANFREDI, LUCA   
genere: biografico   
con Elio Germano, Miriam Leone, Stefano Fresi, Anna Ferruzzo, Duccio Camerini, Barbara Ronchi, Vincenzo Zampa, Flavio Furno, Roberto Citran, Arianna Battilana, Roberto Giordano, Sara Lazzaro, Massimo Wertmuller, Paola Minaccioni, Maria Torres, Gennaro Di Biase, Guido Roncalli, Vincenzo Nemolato, Emanuel Caserio, Luca Di Giovanni, Fulvia Lorenzetti, Cinzia Mascoli, Giancarlo Previati, Pietro Ragusa, Leo Gullotta, Giorgio Tirabassi    
location: Italia
voto: 7   

Quando Manfredi non era ancora Manfredi. La biopic televisiva sull'immenso Nino Manfredi (all'anagrafe Saturnino), che il figlio Luca gli dedica a oltre due lustri dalla morte (avvenuta nel 2004), si concentra infatti sugli anni che precedono l'affermazione - prima televisiva, poi in teatro e al cinema - del padre.
Cresciuto a causa di una pleurite in un sanatorio, durante il fascismo, il giovane Saturnino si dimostrò fin da subito sagace, intelligente, ironico, incline alo scherzo, amante della musica e con un vero talento attoriale. Tuttavia il padre, un carabiniere ciociaro, aveva in programma per lui una laurea in giurisprudenza - titolo che Nino effettivamente riuscì a prendere - mostrandosi totalmente refrattario alla vocazione artistica del figlio. È sulla dialettica di odio e amore tra i due che si gioca una buona parte del film, al quale pure non mancano i riferimenti al casuale e progressivo inserimento nel teatro, agli iniziali difetti di dizione, all'alba di quel grande amore che Manfredi avrebbe poi avuto con Erminia (Leone), sua moglie per cinquant'anni.
Se l'impronta da sceneggiato televisivo è ben visibile nell'uso delle luci, in una certa povertà scenografica e in un cast complessivamente non proprio di primissimo livello, al film va riconosciuto un registro non agiografico, un ritmo notevole ma, più di tutto, la performance assolutamente maiuscola di Elio Germano, capace di appropriarsi di tutti i tratti espressivi e prosodici dell'attore di Castro dei Volsci, una prova di mimetismo talmente potente che non fa che ribadire che il 37enne romano è uno dei più grandi talenti che il nostro cinema abbia espresso da vent'anni a questa parte.    

martedì 24 ottobre 2017

Brutti e cattivi

anno: 2017       
regia: GOMEZ, COSIMO
genere: grottesco
con Claudio Santamaria, Marco D'Amore, Sara Serraiocco, Simoncino Martucci, Narcisse Mame, Aline Belibi, Giorgio Colangeli, Filippo Dini, Fabiano Lioi, Rosa Canova, Maria Chiara Augenti, Adamo Dionisi, Rinat Khismatouline, Shi Yang, Guo Qiang Xu    
location: Italia, Svizzera
voto: 4,5

Piccoli Jeeg Robot crescono. Dopo I peggiori, ecco che anche l'esordiente Cosimo Gomez  ci propina la sua versione lisergica di un genere che vorrebbe scimmiottare il capolavoro di Mainetti, guardando al cinema dei Maestri (l'omaggio a Scola è palese fin dal titolo) ma un po' anche al pulp di Alex De La Iglesia e alla lezione di Freaks di Browning. Brutti e cattivi è un film acefalo che mostra soltanto i muscoli di una ragguardevole capacità di stare dietro alla macchina da presa e di montare (fulminante l'incipit), dimenticando però tutto il resto. L'accetta che taglia il braccio del protagonista (un Santamaria con tanto di riporto) in uno dei tanti momenti splatter del film, evidentemente deve essere servita anche per disegnare i caratteri dei personaggi. I quali altro non sono che quattro freaks (uno nato senza gambe, l'altra senza braccia, un nano e un tossico stile rastaman) che a Roma vogliono mettere a segno una rapina milionaria ai danni di alcuni cinesi. Tutti fanno il doppiogioco per tenersi l'ingente malloppo e alla fine soltanto uno la spunterà, ma a caro prezzo.
Il film di Gomez è la testimonianza della ricerca spasmodica di una nuova via alla commedia italiana. Il risultato, in questo caso, è che tanto talento visivo venga messo al servizio di una totale carenza di idee in fase di sceneggiatura, a cui si aggiunge un cast nient'affatto all'altezza, nel quale spicca, in negativo, la prova del sopravvalutato Marco D'Amore.
Originale invece la scelta della location: parte del film è stata infatti girata in zona Casal Bernocchi/Malafede, periferia sud-occidentale della capitale, vicino alla chiesa di San Pio da Pietrelcina.    

lunedì 16 ottobre 2017

Mr. Ove (En man som heter Ove)

anno: 2017       
regia: HOLM, HANNES 
genere: grottesco 
con Rolf Lassgård, Bahar Pars, Ida Engvoll, Filip Berg, Catharina Larsson, Klas Wiljergård, Börje Lundberg, Tobias Almborg, Simon Edenroth, Poyan Karimi, Stefan Gödicke, Johan Widerberg    
location: Svezia
voto: 5 

Mr. Ove (Lassgård) ha 59 anni portati malissimo. lavora da più di quaranta alle ferrovie ma viene mandato in pensione anzitempo. È solo l'ultima tegola di una vita composta da un susseguirsi di eventi tragici: la morte della madre quando ancora era bambino, poi quella terribile del padre, il tremendo incidente della moglie e la malattia di quest'ultima, che lo ha lasciato vedovo anzitempo. Tutti questi eventi hanno fatto di Ove una persona misogina, insofferente agli altri, ossessionata dalle regole, pignola, ma anche stanca di vivere e decisa al suicidio. Qualcosa cambierà quando nella sua vita entra una vicina di casa siriana (Pars), capace di far emergere il lato più umano della personalità di Ove.
Favola buonista per famiglie dal registro grottesco, il film dello svedese Hannes Holm, tratto dal best seller scandinavo L'uomo che metteva in ordine il mondo di Fredrik Backman, inanella una tale serie di eventi tragici da rendere parossistico il racconto biografico non del tutto inedito al cinema (A proposito di Schmidt, Il centenario che scavalcò  la finestra e scomparve). Qui tutto diventa edulcorato, carezzevole, annacquato da un mare di melassa che lascia naufragare i pochi momenti davvero divertenti del film. A dispetto di ciò, Mr. Ove ha ricevuto una candidatura all'Oscar come miglior film straniero e ha vinto l'EFA come miglior commedia europea.    

mercoledì 11 ottobre 2017

L'inganno (The Beguiled)

anno: 2017       
regia: COPPOLA, SOFIA  
genere: drammatico  
con Colin Farrell, Nicole Kidman, Kirsten Dunst, Elle Fanning, Emma Howard, Oona Laurence, Angourie Rice, Addison Riecke    
location: Usa
voto: 6  

Virginia, 1864. Manca un anno alla fine della guerra di secessione. Una ragazzina trova il moribondo caporale McBurney (Farrell), un soldato nordista, in mezzo al bosco. Avverte la direttrice (Kidman) del collegio femminile della confederazione alla quale appartiene, la quale decide di curare il soldato per poi lasciarlo al suo destino. Nel gineceo l'arrivo del nuovo oggetto del desiderio scatena un gioco di passioni e rivalità tra donne, portando lo scompiglio nella quiete fittizia della scuola.
Tratto dal romanzo del 1966 di Thomas Cullinan, da cui Don Siegel aveva ricavato un capolavoro come La notte brava del soldato Jonathan, con Clint Eastwood nel ruolo di protagonista, il film di Sofia Coppola richiama inevitabili confronti con la realizzazione del maestro americano. Nonostante il premio alla regia ricevuto a Cannes, il paragone è schiacciante a suo sfavore: alle atmosfere cariche di eros del film di Siegel, peraltro curatissime nelle scene madri, L'inganno risponde con un copione impaginato con indubbia eleganza, ma trafelato, algido, estetizzante, spogliato quasi completamente dal palpito che animava ogni sequenza del suo antesignano, arrivando ad essere addirittura censorio. E se nel film di Siegel il carisma e l'ambiguità del personaggio di Eastwood garantivano l'equidistanza dello spettatore dalle capacità manipolatorie di McBurney e dalla crudeltà delle collegiali, in quello della Coppola assistiamo a una parabola femminista paradossalmente carica di misoginia, tanto la bilancia drammaturgica viene spostata  sulla seduzione di una sbiaditissima figura maschile come unica strategia possibile di sopravvivenza, a fronte dei prudori di femmine disposte al massacro.    

mercoledì 4 ottobre 2017

Il contagio

anno: 2017       
regia: BOTRUGNO, MATTEO * COLUCCINI, DANIELE 
genere: drammatico 
con Vinicio Marchioni, Anna Foglietta, Maurizio Tesei, Giulia Bevilacqua, Vincenzo Salemme, Daniele Parisi, Michele Botrugno, Alessandra Costanzo, Lucianna De Falco, Carmen Giardina, Fabio Gomiero, Florian Khodeli, Nuccio Siano    
location: Italia
voto: 3

Aleggia lo spirito, sbiaditissimo, di Pasolini su questa opera seconda di un binomio registico che aveva fatto sperare benissimo dopo la magnifica prova d'esordio, Et in terra pax. Siamo ancora nella borgate romane (stavolta, sul copione, al Laurentino 38, ma nella realtà al Quarticciolo) e il tutt'altro che mascherato richiamo alla figura di PPP proviene dal romanzo omonimo di Walter Siti. È un assemblaggio di storie disgraziate, tra gente abituata all'arte di arrangiarsi e costantemente sul crinale del crimine, tra cocainomani, spacciatori e qualcuno che tenta il grande salto nella Roma bene, quella che da decenni detta legge nella città eterna, quella della criminalità organizzata, di Suburra e di Mafia Capitale. Al centro della scena ci sono Marcello (Marchioni), sposato ma disposto a concedere le sue palestratissime grazie a un scrittore omosessuale decisamente più agée (Salemme), e un suo amico (Tesei), in combutta con un boss partenopeo (Siano) che non si fa alcuno scrupolo di sfruttare i finanziamenti pubblici per gli aiuti ai rifugiati pur di rastrellare quattrini sporchi. Se sullo schermo (e sul libro) il contagio del titolo fa riferimento alla facilità con cui si diffonde il virus del crimine, in sala l'unico contagio possibile è quello dello sbadiglio: tra una fastidiosissima voce off che scandisce i passaggi più magniloquenti dello scrittore modenese e dialoghi scritti in maniera meno che pedestre, il film arranca alla ricerca di una cifra stilistica che paga dazio alla serialità televisiva di Suburra e Gomorra e che viene sottolineata con troppa enfasi da esagerati movimenti di macchina, dalla colonna sonora di Paolo Vivaldi, invadente forse in ragione del cognome tropo importante del suo autore, e da una recitazione che nemmeno per un attimo riesce a celare un irritante senso di finzione, inevitabile per un insieme di attori tutti ben al di sotto del minimo sindacale, compreso un Vincenzo Salemme dall'aria continuamente disorientata.    

sabato 30 settembre 2017

L'incredibile vita di Norman (Norman: The Moderate Rise and Tragic Fall of a New York Fixer)

anno: 2016       
regia: CEDAR, JOSEPH   
genere: grottesco   
con Richard Gere, Lior Ashkenazi, Michael Sheen, Steve Buscemi, Charlotte Gainsbourg, Dan Stevens, Hank Azaria, Harris Yulin, Josh Charles, Yehuda Almagor, Neta Riskin, Tali Sharon, Isaach de Bankolé, Dov Glickman (Doval'e Glickman), Jay Patterson, Jonathan Avigdori, Caitlin O'Connell, Andrew Polk, Jorge Pupo, Maryann Urbano, Ann Dowd, Amelie McKendry, Scott Shepherd, Yuval Boim, Davide Borella, D.C. Anderson, Hannah Yun, Miranda Bailey    
location: Israele, Usa
voto: 8,5   

Norman Oppenheimer (Gere) vive tra le strade innevate e i centri commerciali della Grande Mela, gli auricolari perennemente incolati alle orecchie, il cappotto cammello, la coppola e una borsa a tracolla. La sua grande ambizione è quella di entrare in contatto con la gente che conta. Non gli importa il potere né gli interessano i soldi. Con un misto di condiscendenza e ostinazione, si avvicina alle persone ripetendo quasi sempre la stessa frase: "Mi dica di cosa ha bisogno". Grazie a delle costosissime scarpe, riesce a entrare nell'orbita del primo ministro israeliano (Ashkenazi), ma anche sotto l'occhio vigile di un'ispettrice governativa di quel paese (Gainsbourg) che vuole capire chi sia davvero Norman.
Nonostante lo spoiler contenuto nel sottotitolo del film - La moderata ascesa e la tragica caduta di un faccendiere newyorkese - L'incredibile vita di Norman è l'esempio per antonomasia di cinema intelligente, innovativo, assai creativo sotto il profilo del linguaggio delle immagini (imperdibili gli split screen che ricreano in un'unica inquadratura ambienti radicalmente diversi). Diviso in quattro atti, il film di Joseph Cedar è il racconto favolistico di un bonario impostore ossessionato dal jet set, capace di intrecci impossibili pur di rendersi utile alle persone che contano, servito da un Richard Gere in stato di grazia.