lunedì 28 febbraio 2011

The Hurt Locker

anno: 2008   
regia: BIGELOW, KATHRYN
genere: guerra
con Jeremy Renner, Anthony Mackie, Brian Geraghty, Guy Pearce, Ralph Fiennes, David Morse, Evangeline Lilly, Christian Camargo, Suhail Aldabbach, Christopher Sayegh, Nabil Koni, Sam Spruell, Sam Redford, Feisal Sadoun, Barrie Rice, Imad Dadudi, Erin Gann, Justin Campbell, Malcolm Barrett, Kristoffer Ryan Winters, J.J. Kandel, Ryan Tramont, Michael Desante, Hasan Darwish, Wasfi Amour, Nibras Quassem, Ben Thomas, Nader Tarawneh, Anas Wellman, Omar Mario, Fleming Campbell
location: Iraq, Usa   
voto: 8

La guerra è una droga. Come tale la vive il sergente William James (Renner), artificiere americano di stanza a Baghdad, alla perenne ricerca del guizzo adrenalinico tra lo smarrimento dei suoi commilitoni, l'indivia serpeggiante per il suo coraggio e la rabbia per le morti, inevitabile danno collaterale di una delle tante sporche guerre.
Con stile semidocumentaristico, più dalle parti di Rambo che da quelle di Kubrick, la Bigelow bissa la prova di un film corale tutto al maschile data con K-19, portandoci nel pieno centro del campo di battaglia, tra esibizioni di machismo, sprazzi di umanità, noia del quotidiano infarcitò al più da qualche dvd porno, abitudine e un perenne senso di allerta. Due ore di purissima tensione calate in un racconto antinarrativo in cui seguiamo il conto alla rovescia prima che il reparto militare in Iraq passi il cambio della guardia. Salvo poi ricominciare daccapo per una nuova avventura, ancora alla ricerca di quell'irrinunciabile brezza adrenanalinica.
Premio Oscar 2010 come miglior film, miglior regia, miglior montaggio (Bob Murawski e Chris Innis), miglior montaggio del suono (Paul N.J. Ottosson, miglior missaggio del suono (Paul N.J. Ottosson e Ray Beckett), miglior sceneggiatura originale (Mark Boal).    

sabato 26 febbraio 2011

Unknown - Senza identità

anno: 2011       
regia: COLLET-SERRA, JAUME
genere: thriller
con Liam Neeson, Diane Kruger, January Jones, Aidan Quinn, Bruno Ganz, Frank Langella, Sebastian Koch, Olivier Schneider, Stipe Erceg, Rainer Bock, Mido Hamada, Clint Dyer, Karl Markovics, Eva Löbau, Helen Wiebensohn, Merle Wiebensohn, Adnan Maral, Torsten Michaelis, Rainer Sellien, Petra Hartung, Michael Baral, Sanny Van Heteren, Ricardo Dürner, Marlon Putzke, Herbert Olschok, Karla Trippel, Petra Schmidt-Schaller, Annabelle Mandeng, Janina Flieger, Fritz Roth, Heike Hanold-Lynch, Matthias Weidenhöfer, Kida Khodr Ramadan, Peter Becker, Vladimir Pavic, Oliver Stolz, Oliver Lange, Sebastian Stielke
location: Germania
voto: 7

Giunto a Berlino per un importante convegno internazionale sulle biotecnologie, un accademico americano (Neeson) ha un incidente in taxi. Rimane in coma per quattro giorni e quando si rimette sembra che nessuno voglia credere alla sua reale identità. Scopre l'esistenza di un complotto contro un principe arabo (Hamada) che finanzia programmi di ricerca a sostegno della fame nel mondo ma la realtà è molto più complessa di come la immagina.
Tratto dall'omonimo romanzo di Didier Van Cauwelaert, Unknown si colloca tra Frantic, Intrigo a Stoccolma, Il fuggitivo e le avventure di Jason Bourne. Nulla di originale e memorabile, ma del film vanno apprezzati la trama fitta e nitidissima, l'incessante ritmo adrenalinico e la spettacolarità delle moltissime scene d'azione, tutte girate con grande professionismo e senza badare a spese. Il sottofinale che ti spiazza dà un tocco in più a un film di genere davvero poco credibile ma tutto da vedere.    

giovedì 24 febbraio 2011

La canarina assassinata

anno: 2008   
regia: CASCELLA, DANIELE  
genere: commedia nera  
con Ignazio Oliva, Bruno Armando, Chiara Conti, Michele De Virgilio, Remo Remotti, Emilio Bonucci, Caterina Vertova, Paolo De Vita, Lorenzo Monaco, Vanni Bramati, Chiara Francini  
location: Italia   
voto: 3

La villa nel viterbese di una vedova in bolletta (Vertova) è il set nel quale si dovrebbe girare l'opera seconda di un regista giovane e idealista (Oliva). Il produttore (Armando) non ha una lira, il protagonista principale (De Virgilio) pensa soltanto al sesso e tra le maestranze c'è chi si innamora e chi si diverte. Ci scappa anche il morto. Il colpevole non sarà mica il maggiordomo?
Tra commedia nera e grottesco, l'esilissimo film di Casella si avvale di qualche buon inserto ma non è altro che un effetto giorno dal quale traspaiono livore e risentimento per il mondo del cinema, le cui quinte vengono messe alla berlina con un umorismo di grana grossa e senza un briciolo d'ironia.    

mercoledì 23 febbraio 2011

The Box - C'è un regalo per te...

anno: 2009       
regia: KELLY, RICHARD 
genere: horror 
con Cameron Diaz, James Marsden, Frank Langella, James Rebhorn, Holmes Osborne, Sam Oz Stone, Gillian Jacobs, Celia Weston, Deborah Rush, Lisa K. Wyatt, Mark S. Cartier, Kevin Robertson, Michele Durrett, Ian Kahn, John Magaro, Ryan Woodle, Basil Hoffman, Robert Harvey, Gentry Lee, Andrew Levitas, Gabriel Field, Frank Ridley, Daniel Stewart Sherman, Matthew C. Flynn, Patrick Canty, Sam Blumenfeld, Kevin DeCoste, Mary Klug, Allyssa Maurice, Danny DeMiller, Michael Zegen, Rachael Hunt, Cheryl McMahon, Evelina Oboza, Bill Buell, Sal Lizard, Donald Warnock, W. Kirk Avery, Don Hewitt, Floyd Richardson, David R. McDonough, Rick L'Heureux, Nicholas Cairis, Robert Denton, Paul Locke, Danielle Heaton 
location: Usa       
voto: 1

La cosa più inverosimile di questo film da studentello del primo anno del DAMS non è il fatto che al centro del plot narrativo ci sia una scatola con un pulsante, premendo il quale viene uccisa una persona a distanza. La cosa più stupefacente è che una giovane madre di famiglia americana (Diaz) senta bussare alla porta, si ritrovi davanti un perfetto sconosciuto con il volto orribilmente sfigurato (Langella) e che, alla richiesta di questo, lo faccia entrare in casa. Come a dire che il regista del sopravvalutato Donnie Darko, uno che crede di essere David Lynch, ha una così infima considerazione del pubblico da pensare di poter infarcire le sue storie con qualsiasi stupidaggine. Con The box ci troviamo negli States del 1976, con una lei che vorrebbe fare un'operazione per recuperare il piede perso a causa delle radiazioni e il suo compagno (Marsden, da Oscar per il livello bovino della recitazione) che vorrebbe coronare il sogno di diventare astronauta. L'occasione per raggranellare quattrini arriva con la scatola nera misteriosa trovata fuori dall'uscio di casa, che azionata frutterebbe alla coppia un milione di dollari. Lei non resiste a dispetto del parere di lui ma i due non hanno calcolato gli indicibili effetti collaterali del loro gesto.
Parabola complottista da prima elementare sul senso di responsabilità che ciascuno di noi dovrebbe avere rispetto alla collettività, il film tratto dal racconto di Richard Matheson Button, Button è sceneggiato malissimo, montato peggio e servito da un cast che - con l'eccezione di Langella - non potrebbe figurare neppure in una recita parrocchiale. Suspense a zero e risibili scantonamenti horror.    

martedì 22 febbraio 2011

La camera verde

anno: 1978   
regia: TRUFFAUT, FRANCOIS
genere: drammatico
con François Truffaut, Nathalie Baye, Jean Daste', Patrick Maleon, Jeanne Lobre, Marcel Berbert, Guy D'Ablon, Jean Pierre Ducos, Marie Jaoul, Antoine Vitez, Annie Miller, Jean Pierre Moulin, Laurence Ragon, Monique Dury, Serge Rousseau, Christian Lentretien, Anna Paniez
location: Francia   
voto: 4

Sconvolto per aver visto morire molti suoi amici sul campo di battaglia durante la prima guerra mondiale e rimasto precocemente vedovo, Julien Davenne (Truffaut) manifesta una vera e propria ossessione nel rapportarsi con i defunti. Decide così di investire tutto ciò che ha messo da parte nel recupero di una cappella abbandonata e fatiscente, che diventa una perenne camera ardente nella quale ogni candela e ogni ritratto sulle pareti ricorda le persone scomparse. In questo suo lucidissimo delirio coinvolge anche una giovane antiquaria (Baye).
Film doloroso e cupo tratto da L'altare dei morti e da altri racconti di Henry James, La camera verde è il messa in scena di un'ossessione portata sullo schermo con stile assai scarno e registro fortemente ieratico, nel quale la musica gioca un ruolo centrale.    

sabato 19 febbraio 2011

Il cigno nero (Black swan)

anno: 2011       
regia: ARONOFSKY, DARREN
genere: horror
con Natalie Portman, Vincent Cassel, Mila Kunis, Barbara Hershey, Winona Ryder, Benjamin Millepied, Ksenia Solo, Kristina Anapau, Janet Montgomery, Sebastian Stan, Toby Hemingway, Sergio Torrado, Mark Margolis, Tina Sloan, Abraham Aronofsky, Charlotte Aronofsky, Marcia Jean Kurtz, Shaun O'Hagan, Christopher Gartin, Deborah Offner
location: Usa       
voto: 1

Lasciato il mondo dei combattimenti artefatti e fracassoni dopo l'inguardabile The wrestler, Aronofsky rimane ben saldo nel suo cinema dei corpi per spostarsi nel mondo della danza. Al centro della vicenda c'è Nina (Portman), ballerina tecnicamente assai dotata ma algida e frigida (e soprattutto psicolabile), altrettanto incapace di soddisfare fino in fondo le attese - artistiche e sessuali - del coreografo newyorchese Thomas (Cassel), per il quale Nina sarà l'etoile nel lago dei cigni di Tchaikovsky. La ragazza, che ha in Lilly (Kunis) una terribile antagonista, riuscirà a interpretare degnamente la doppia parte (quella del cigno bianco e quella del cigno nero) soltanto a condizione di vincere radicalmente le sue paure e di portare al parossismo il proprio autolesionismo.
Grazie alla scoperta dei cigni neri in Nuova Zelanda Karl Popper diventò uno dei più importanti epistemologi di tutto il Novecento. Con un libro dallo stesso titolo Nassim Nicholas Taleb ha firmato un (pessimo) saggio misteriosamente trasformatosi in best seller. Non fa eccezione il film di Aronofsky, andato benissimo nei botteghini d'oltreoceano. Peccato che la paccottiglia di questo osceno psico-thriller dalle marcate venature horror sia la bruttissima copia di Eva contro Eva, telefonatissimo nel suo svolgimento fin dalle prime battute, irritante nella sua ricerca dell'effetto a tutti i costi e per giunta girato con pellicola sgranatissima e molta macchina a spalla. L'inno al botulino di una irriconoscibile e mostruosa Barbara Hershey - nelle parti dell'inarginabile madre della protagonista - dà il tocco finale a questo festival degli orrori con finezze psicologiche da asilo nido.
Premio Marcello Mastroianni (Venezia) a Mila Kunis come miglior giovane attrice emergente e Golden Globe 2011 a Natalie Portman come miglior attrice protagonista di film drammatico.    

venerdì 18 febbraio 2011

Il grinta (True grit)

anno: 2010       
regia: COEN, ETHAN * COEN, JOEL
genere: western 
con Jeff Bridges, Hailee Steinfeld, Matt Damon, Josh Brolin, Barry Pepper, Dakin Matthews, Jarlath Conroy, Paul Rae, Domhnall Gleeson, Elizabeth Marvel, Roy Lee Jones, Ed Corbin, Leon Russom, Bruce Green, Candyce Hinkle, Peter Leung, Don Pirl, Joe Stevens, David Lipman, Jake Walker, Orlando Storm Smart, Ty Mitchell, Nicholas Sadler, Scott Sowers, Jonathan Joss, Maggie A. Goodman, Brandon Sanderson, Ruben Nakai Campana 
location: Usa       
voto: 3

Siamo all'incirca nel 1870. Una quattordicenne dell'Arkansas (Steinfeld) perde il padre, ucciso da un criminale (Brolin). Decisa a portare quest'ultimo davanti alla Corte per farlo giudicare, la ragazzina ingaggia un cacciatore di taglie, l'ex sceriffo ubriacone Rooster Cogburn (Bridges), detto "il grinta" per via dei modi ruvidi e la facilità con cui usa il grilletto. L'uomo, insieme a un ranger (Damon), si mette alla caccia del malvivente con la tenace ragazzina al seguito.
Remake dell'omonimo film del 1969  diretto da Henry Hathaway e interpretato da John Wayne, Il grinta non aggiunge nulla alla filmografia dei fratelli Coen, confermando al contrario un momento di stanchezza creativa e una minore attenzione per il prodotto finito. Mai come in questa occasione, tolto qualche campo lunghissimo, il talento visivo dei due fratelli rimane appena accennato, in più occasioni le scelte sembrano frettolose e abborracciate (basta guardare come la protagonista esce dall'acqua completamente asciutta dopo aver guadato il fiume, o le labbra della stessa una volta diventata adulta e ridotte della metà per capire con quanta approssimazione i due abbiano voluto congedare il film) e il racconto non conserva né suspense né ritmo, proponendosi come uno stanco e scialbo raod movie a cavallo dalla verbosità esasperante.    

mercoledì 16 febbraio 2011

Biutiful

anno: 2011       
regia: GONZALEZ INARRITU, ALEJANDRO
genere: drammatico
con Javier Bardem, Maricel Álvarez, Eduard Fernández, Rubén Ochandiano, Cheng Tai Shen, Luo Jin, Hanna Bouchaib, Diaryatou Daff, Guillermo Estrella, Martina Garcia, Ana Wagener, Blanca Portillo, Manolo Solo
location: Spagna       
voto: 3

Lui si chiama Uxbal (Bardem, premiato a Cannes come migliore attore, ex-aequo con Elio Germano), vive nella suburra di Barcellona e per tirare avanti si è infilato in un traffico di clandestini al soldo di alcuni cinesi senza scrupoli. L'uomo arrotonda ulteriormente spacciandosi per medium, ha due bambini - il più piccolo soffre di enuresi notturna - vive in una topaia e sua moglie (Alvarez: è dai tempi di Mariangela Fantozzi detta Cita che non si vedeva una donna altrettanto brutta sul grande schermo) è una battona bipolare che se la intende col cognato e ha la siringa facile. Uxbal ha il cancro e qualche settimana di vita. Il problema è: chi si prenderà cura dei bambini?
No, non siamo in un melodrammone di Matarazzo, ma nell'ultima fatica di Alejandro Gonzalez Inarritu, enfant prodige che con l'ex sodale Guillermo Arriaga aveva firmato capolavori come Amores perros, 21 grammi e Babel e che, a divorzio ultimato, licenzia un polpettone fiacchissimo al quale mancano soltanto terrorismo, incesto e pedofilia per completare il quadro parossistico nel quale si muove la figura del protagonista. Orfano di uno sceneggiatore come Arriaga al quale la struttura dei film precedenti doveva moltissimo, Inarritu si muove su una struttura narrativa lineare, privilegia una Barcellona tutt'altro che turistica, annuncia il disastro smorzando la suspense e, dopo Mare dentro, mette Bardem nelle condizioni di giocare ancora una volta la carta del malato terminale. Incrocio dismorfico tra Anche libero va bene e L'argent, Biutiful sembra voler richiamare programmaticamente l'uso del fazzoletto. Rimane invece inerte, incapace di emozionare.    

domenica 13 febbraio 2011

Son contento

anno: 1984       
regia: PONZI, MAURIZIO 
genere: commedia 
con Francesco Nuti, Barbara De Rossi, Carlo Giuffré, Novello Novelli, Ricky Tognazzi, Laurie Sherman, Maurizio Boni, Claudio Spadaro, Alberto Petrolini, Ferzan Özpetek, Bianca Maria Toso, Anna Maria Natalini, Massimo Franceschi, Vera Furlan 
location: Italia       
voto: 5

Francesco (Nuti), cabarettista toscano che vive a Roma, viene lasciato da Paola (De Rossi), la sua compagna, perché troppo dedito al lavoro. Persa la ragazza, perde anche la vena creativa e il suo impresario (un Carlo Giuffrè ciclopico e mai abbastanza valorizzato dal cinema italiano) deve sudare sette camicie per trovare qualcuno disposto a ingaggiarlo. Ritrovata Paola, Francesco non riuscirà però a fare a meno di quel brivido provato in uno spattcolo "senza rete" in cui la dimensione personale diventa l'oggetti stesso dello spettacolo, con inevitabili ulteriori conseguenze sul piano sentimentale.
Film esilissimo quasi tutto sulle spalle del "malincomico" Francesco Nuti - sorriso disarmante e battuta sempre pronta, una sorta di Buster Keaton alla toscana - Son contento è l'emblema di una svolta epocale della commedia all'italiana verso registri sempre più personali e intimisti.    

sabato 12 febbraio 2011

Gianni e le donne

anno: 2011   
regia: DI GREGORIO, GIANNI
genere: commedia
con Gianni Di Gregorio, Valeria De Franciscis, Alfonso Santagata, Elisabetta Piccolomini, Valeria Cavalli, Aylin Prandi, Kristina Cepraga, Michelangelo Ciminale, Teresa Di Gregorio, Lilia Silvi, Gabriella Sborgi, Laura Squizzato, Silvia Squizzato
location: Italia       
voto: 6

Leggi Gianni e le donne e la tua mente condizionata da millenni di cultura maschilista ti rimanda subito all'idea tutta ormonale dell'harem. E invece l'opera seconda di Gianni Di Gregorio, resa possibile anche grazie allo straordinario quanto inaspettato successo di Pranzo di ferragosto, mette in scena un sessantenne trasteverino andato in pensione anzitempo, servizievole verso chiunque gli chieda qualcosa, tiranneggiato dalla madre (l'incontenibile 95enne Valeria De Franciscis), costretto a sopportare la presenza in casa del fidanzato accidioso della figlia (Ciminale) e fagocitato dalla potenza del gineceo familiare. Non siamo nell'anticamera di un film misogino, bensì nella spazio placentare di una commedia intimista garbata e domestica in cui il protagonista sogna l'emancipazione sotto forma di una giovane amante, come fanno i suoi amici ben più attempati di lui. Sullo sfondo c'è una Roma un po' da cartolina, in figura troviamo gli stessi sguardi stralunati e i medesimi, godibilissimi guizzi sul registro grottesco che avevano caratterizzato il film precedente, conditi con tocchi di godibilissimo verismo. Solo che qui è tutto un po' più annacquato, come la bottiglia di champagne che Gianni rimette in frigo dopo averne scolata un bel po'.    

Swimming pool

anno: 2002   
regia: OZON, FRANÇOIS
genere: noir
con Charlotte Rampling, Ludivine Sagnier, Charles Dance, Jean-Marie Lamour, Marc Fayolle, Mireille Mossé, Michel Fau, Jean-Claude Lecas, Emilie Gavois-Kahn, Erarde Forestali, Lauren Farrow, Sebastian Harcombe, Frances Cuka, Keith Yeates, Tricia Aileen, Glen Davies
location: Francia, Regno Unito   
voto: 7

I film di François Ozon, uno dei registi europei che con maggiore incidenza hanno fatto sentire il loro stile a partire dalla fine del Novecento, hanno due caratteristiche: si innervano inguaribilmente di richiami tra l'onirico e il fantastico e non sempre riescono a concludere nel migliore dei modi quanto promesso. È ciò che accade anche in Swimming pool (il rimando a un noto titolo di Jacques Deray, La piscina, va ben oltre il titolo), noir ambientato nel sud della Francia, nella magnifica residenza estiva che un editore inglese (Dance) ha prestato alla sua pupilla (Rampling), una scrittrice di romanzi gialli di successo, alla ricerca della vena creativa perduta. La comparsa improvvisa e inaspettata della figlia dell'editore (Sagnier), una ninfetta ninfomane, dirotta l'obiettivo della scrittrice su un altro romanzo, ispirato proprio dalla carnalità irrequieta della ragazzina. La scomparsa di un uomo (Lamour) che frequentava la giovane contribuirà a rimpinguare ulteriormente la trama. Ozon riesce magistralmente a creare un'atmosfera morbosa e tesa, carica di suspense, ma finisce col perdersi nel gioco di rimandi tra la finzione letteraria e quella filmica, scantonando in un'ambiguità tutta cerebrale che avrebbe potuto controllare diversamente e che fa approdare il film a un finale scontato e deludente.    

giovedì 10 febbraio 2011

Lancillotto e Ginevra (Lancelot du Lac)

anno: 1974        
regia: BRESSON, ROBERT    
genere: mitologico    
con Luc Simon, Laura Duke Condominas, Humbert Dalsan, Vladimir Antolek-Olesek, Patrick Bernard, Arthur Demont-Alembert, Joseph Patrick Le Quindre, Charles Balsan, Christian Schlumberger, Jean-Pan Leperlier, Guy De Bernis, Philippe Chleo, Jean-Marie Becar, Antoine Rabaud, Marie-Luoise Buffet, Marie-Gabrielle Cartron, Tullio attan Cristiana, Alfredo Gallo    
location: Francia    
voto: 2

Come dare torto a Morando Morandini quando scrive che rispetto a Bresson "Antonioni sembra un regista commerciale" dopo aver visto Lancillotto e Ginevra, il più costoso e ambizioso film del regista francese? Peccato che lo stesso Morandini si soffermi sull'ascetismo stilistico del cineasta d'oltralpe, esaltandolo. Più prosaicamente e fantozzianamente, Lancelot du Lac è una boiata pazzesca. La storia è quella epica e arcinota del crociato Lancillotto (Simon) che, tornato a mani vuote e con una contabilità gravemente in rosso di perdite umane dalla ricerca del santo Graal, si inimica re Artù (Dalsan) amandone la sposa Ginevra (Duke Condominas). È la via più rapida per trovarsi contro i lacché del regnante, che Lancillotto è costretto a sfidare il duello. A Hollywood ne avrebbero fatto un film in 3d. Bresson invece predilige l'immobilità della macchina da presa, la recitazione straniata e monocorde (un ragazzino di scuola media costretto a recitare "Pianto antico" di Carducci modulerebbe la voce in maniera più professionale), i dialoghi di una pomposità degna di Carmelo Bene. Cinema letargico, inerte, malmostoso, laconico, roba da accogliere il calpestio degli zoccoli e lo sferragliare delle armature come un'inaspettata scarica adrenalinica.    

mercoledì 9 febbraio 2011

I testimoni (Les temoins)

anno: 2007   
regia: TÉCHINÉ, ANDRÉ
genere: drammatico
con Michel Blanc, Emmanuelle Béart, Sami Bouajila, Julie Depardieu, Johan Libéreau, Constance Dollé, Lorenzo Balducci, Alain Cauchi, David Barbas, Xavier Beauvois, Raphaëline Goupilleau, Jacques Nolot, Maïa Simon, Bertrand Soulier, Michèle Moretti
location: Francia
voto: 6

Parigi, 1984-1985. Sarah (Beart) è una mamma pentita che trascura il figlio neonato, ricca, scrive favole per bambini ed è sposata con Mehdi (Bouajila), capo della buoncostume. Quest'ultimo inizia una storia clandestina con il giovanissimo Manu (Libéreau), che ha conosciuto tramite un comune amico, un medico omosessuale dai modi assai distinti (Blanc). Quando Manu scopre di avere contratto l'AIDS, per Mehdi sarà il panico.
Attratto da sempre dal tema dell'amore "difficile", Techiné propone stavolta la messa in scena dell'alba dell'AIDS (lo aveva già fatto nel 1990 Norman Renè con Che mi dici di Willy?) con un film corale raccontato dalla voce off della scrittrice che trova nel proprio dramma personale e in quello di suo marito lo spunto per uscire dalla propria crisi creativa e scrivere il suo primo romanzo. Non sempre però il film riesce a convincere: vuoi per la discontinuità del racconto, vuoi per la prova di una Beart mai così siliconata e sotto tono.    

lunedì 7 febbraio 2011

London river

anno: 2009   
regia: BOUCHAREB, RACHID
genere: drammatico
con Brenda Blethyn, Sotigui Kouyaté, Francis Magee, Sami Bouajila, Roschdy Zem, Marc Baylis, Bernard Blancan, Aurélie Eltvedt, Diveen Henry, Gurdepak Chaggar
location: Regno Unito   
voto: 6

All'indomani del terribile attacco terroristico che colpì Londra nel luglio del 2005, una madre (Blethyn) che vive nell'isola britannica di Guernsey si reca nella capitale inglese per mettersi sulle tracce della figlia scomparsa. Scopre che la ragazza ha una relazione con un ragazzo islamico, ricercato anch'egli dal padre (Kouyaté) che, arrivato in terra d'Albione dalla Francia, non vede il figlio da quando quest'ultimo aveva 6 anni. La ricerca dei due giovani costituirà per la donna ("questo posto brulica di musulmani", mormora al telefono al fratello) un viatico per superare diffidenza e pregiudizi.
Il regista franco-algerino Bouchareb firma un film situazionista e intimista, nel quale gli eventi della cronaca arrivano agli occhi dei due protagonisti (e degli spettatori) soltanto attraverso le immagini televisive, a contrappunto dell'iperrealismo con cui viene raccontata l'angosciosa ricerca da parte dei due genitori. Sullo sfondo c'è il tipico melting pot londinese, la diffidenza che serpeggia tra comunità islamica e cristiana, il tutto messo in scena con registro rarefatto e a tratti monocorde ma con un'intonatissima scelta degli interpreti, una corpulenta Brenda Blethyn che meglio non potrebbe incarnare la fisionomia della donna comune e uno ieratico Kouyaté (orso d'argento a Berlino come migliore attore), nero, altissimo e magro che, come gli olmi che protegge, sembra sul punto di spezzarsi a ogni passo compiuto col suo inseparabile bastone.    

domenica 6 febbraio 2011

Eva e Adamo

anno: 2009   
regia: MORONI, VITTORIO 
genere: documentario 
con Deborah Colombo, Erika Milano, Veronica Viani 
location: Italia   
voto: 6

Dopo aver diretto due film sul tema della marginalità, lo sguardo di Vittorio Moroni, cineasta indipendente e coraggioso, si ferma a scrutare tre storie milanesi di "amore estremo".
Erika è una vecchia megera piena di quattrini, avvezza al turismo sessuale, che in Senegal ha trovato un 35enne prestante disposto a sposarsela e a portarsela a letto. Ma lei parla di "questi africani" con irritante disprezzo e accenti di esecrabile razzismo; al contempo dà alle stampe un libro di memorie sui "principi azzurri", un florilegio dei poveracci che per bisogno sono passati sotto le sue grinfie.
Deborah è un'attricetta porno che sta con Filippo, dal quale ha avuto un figlio. Lui, che vive di espedienti e non sembra avere tutti i venerdì in ordine, è venuto a conoscenza dell'origine dei guadagni di Deborah dagli amori "cinque dita e un dvd" che gli hanno raccontato gli amici.
Infine c'è Veronica, crocerossina di origini emiliane, che a Lourdes ha avuto un colpo di fulmine per un uomo affetto da distrofia muscolare. Siccome il carico di lavoro che quest'ultimo le generava non era sufficiente, Veronica ha pensato bene di farci insieme due figli.
Impossibile non ammettere che, data la balordaggine delle tre vicende raccontate, il film non solletichi qualche prurito voyeuristico. Sfugge comunque il senso dell'operazione, che sembra voler essere un modo "altro" di raccontare le storie d'amore (siamo sulle tracce del coevo L'amore e basta, di Stefano Consiglio) con uno sguardo pulito e discreto, mai morboso, eppure involontariamente grottesco per via del parassismo delle tre storie narrate, al punto da sollevare il dubbio che la ricerca dell'effetto sia programmatica.

sabato 5 febbraio 2011

Another Year

anno: 2011       
regia: LEIGH, MIKE
genere: drammatico
con Jim Broadbent, Lesley Manville, Ruth Sheen, Oliver Maltman, Peter Wight, David Bradley, Martin Savage, Karina Fernandez, Michele Austin, Philip Davis, Imelda Staunton, Stuart McQuarrie, Eileen Davies, Mary Jo Randle, Ben Roberts, David Hobbs, Badi Uzzaman, Meneka Das, Ralph Ineson, Edna Doré, Gary Powell, Lisa McDonald
location: Regno Unito       
voto: 5

Tom (Broadbent) e Gerry (Sheen), coppia inglese ultrasessantenne, vivono un'esistenza felice, circondata dagli amici e dalle sporadiche visite del figlio trentenne (Maltman). Eppure intorno a loro si respira l'infelicità della solitudine, di amori che non arrivano mai, di rapporti cessati anzitempo.
È il più classico cinema di Mike Leigh, regista di Segreti e bugie e Naked, all'insegna di una rappresentazione quasi documentaristica della classe media (qui lo spunto per il racconto è articolato in quattro diverse stagioni). I caratteri di molti dei film precedenti del regista inglese tornano visibilissimi; l'antinarrazione, la verbosità che rasenta la logorrea, l'improvvisazione in assenza di un vero copione, l'ottima direzione degli attori (su tutti spicca una Lesley Manville nella parte di Mary, bravissima nel gestire un ruolo tutt'altro che facile). Insomma, il tocco di Leigh è pienamente riconoscibile, ma il film è sostanzialmente inconsistente, ripetitivo (la circolarità del modulo fa la sua parte…) e a rischio di sbadiglio.    

venerdì 4 febbraio 2011

Femmine contro maschi

anno: 2011       
regia: BRIZZI, FAUSTO
genere: commedia
con Claudio Bisio, Nancy Brilli, Salvo Ficarra, Valentino Picone, Francesca Inaudi, Luciana Littizzetto, Emilio Solfrizzi, Serena Autieri, Wilma De Angelis, Edoardo Cesari, Giuseppe Cederna, Paola Cortellesi, Fabio De Luigi, Chiara Francini, Lucia Ocone, Alessandro Preziosi, Paolo Ruffini, Carla Signoris, Nicolas Vaporidis, Giorgia Würth, Armando De Razza, Rosabell Laurenti Sellers, Hassani Shapi, Gigio Alberti, Edoardo Cesari, Massimo Franceschi, Massimo Morini, Fabrizio Rizzolo, Enzo Salvi, Matteo Urzia, Marta Zoffoli, Roberto Angelelli, Luca Biagini (III)
location: Italia       
voto: 1


Non so perché l'ho fatto. Forse perché speravo che Chiara Francini avesse una parte più consistente in questo film complemento al precedente Maschi contro femmine. Fatto sta che ho acquistato il biglietto per sorbirmi un filmaccio di proporzioni macroscopiche. Come nella precedente opera gemella, anche qui i tre episodi che compongono il film sono incollati con lo sputo dal pretesto dell'amicizia tra i vari protagonisti. Uno di questi è Piero (Solfrizzi, di gran lunga il migliore in campo), benzinaio pugliese trapiantato a Torino, con il debole per le sottane. Un'accidentale botta sulla testa gli fa perdere la memoria, mettendo la moglie (Littizzetto) nelle condizioni di "riformattarlo" secondo i suoi bisogni. Poi ci sono due amici (Ficarra e Picone), eterni Peter Pan che fanno parte di una cover band dei Beatles, che per via della loro passione rischiano di mettere a repentaglio le rispettive unioni con le loro compagne. E infine c'è Marcello (Bisio), chirurgo plastico che per anni ha fatto credere alla madre (De Angelis) che in casa tutto fila liscio. Quando a questa sembrano restare poche settimane di vita, per regalarle l'ultimo scampolo di felicità Marcello simula il ritorno a casa con tanto di armonia familiare. Per tutti è pronto un finale che avrebbe fatto la gioia di Banfield, nel segno del più corrivo familismo amorale.
Contrassegnato dal marchio del nazionalpopolare, nell'accezione più deteriore del termine, il cinema di Brizzi si nutre di sketch stantii, scopiazza sfiorando l'oltraggio (come possono Ficarra e Picone tentare di rifare la scena della dettatura della lettera in Totò, Peppino e la malafemmina, se non nella assoluta consapevolezza di avere a che fare con un pubblico analfabeta che non conosce nemmeno l'abbecedario del cinema?), è infarcito di un product placement sfacciato, si serve di canzoncine che fanno la gioia del pubblico di i-tunes (il motivetto di Noemi è uno stupro della trombra di Eustachio) e ammicca - a suon di tette (rigorosamente rifatte) e culi - alla volgarità del cinema che fu di Michele Massimo Tarantini, Nando Cicero e Mariano Laurenti senza averne il coraggio e volendo mantenere un'apparenza da cinema per famiglie. La provenienza televisiva dell'intero cast dice il resto su quanto questo genere di immondizia abbia ormai inondato anche le sale cinematografiche.

giovedì 3 febbraio 2011

L'egemonia sottoculturale

Max Stefani intervista Massimiliano Pananari, autore del libro L'egemonia sottoculturale (Einaudi).
Tratto da Il mucchio selvaggio, n. 679, febbraio 2010

COME SI È POTUTI DUNQUE PASSARE DALL’ITALIA DI GRAMSCI, CALVINO O PASOLINI AL GABIBBO E MARIA DE FILIPPI? COME È POTUTO ACCADERE QUESTO? E COME È POTUTA SPARIRE L’EGEMONIA CULTURALE DELLA SINISTRA?
È la (triste) storia di questo ultimo trentennio, coincidente con il dominio sempre più incontrastato del neoliberismo, ovvero di un tipo di economia ossessionata unicamente dalla creazione di profitto. Il vero e proprio “integralismo” e “fondamentalismo di mercato”, come lo chiamano giustamente alcuni studiosi. Una tipologia di economia che “mette tutto in produzione” e spreme anche le nostre teste e i nostri desideri per ricavarne soldi; anzi, in questa nostra epoca cosiddetta postmoderna, dove c’è sempre meno economia reale e produttiva, e sempre più l’economia si rivela immateriale e smaterializzata, questa diventa la principale e più impressionante fonte di profitto. In Italia, la Sinistra, pur non possedendo mai un’autentica egemonia culturale sul Paese, aveva saputo offrire opportunità di incivilimento a una parte della popolazione e le aveva proposto una serie di modelli culturali importanti e di livello. E nonostante la vicinanza all’Unione Sovietica della sua componente maggiore (il Partito comunista), aveva rappresentato un pilastro della democrazia repubblicana. A partire dagli anni Ottanta di Reagan e della Thatcher, il mondo ha preso a girare in un’altra direzione, in modo sempre più esclusivo e spietato. Un contributo importante alla riuscita di tale cambiamento l’hanno fornito i mass media, in particolare, l’industria dell’intrattenimento, che ha saputo plasmare i nostri desideri, e indirizzarli tutti verso i consumi. In Italia, questo lavoro - un lavoro eminentemente politico, perché tutto questo si è tradotto nella vittoria delle destre radicalconservatrici - è stato svolto innanzitutto da alcuni personaggi di primo piano della televisione privata e, da qualche tempo, pubblica (dove vige il sistema delle sliding doors, dal momento che siamo in presenza di un quasi monopolio). Un lavoro politico fatto attraverso trasmissioni che di politico non avevano, a prima vista, nulla: reality, varietà, giochi a premi e quiz show, i program mi di gossip (presenti dovunque e a tutte le ore), un’informazione che si è convertita in infotainment (nella quale ci sono dosi sempre maggiori di intrattenimento, stile “Porta a Porta”) e quella vera e propria corazzata di questo deteriore modello sottoculturale che è “Striscia la notizia”.
VOLEVO PARLARE CON TE DELLA FIGURA DI GRAMSCI. ANCHE PERCHÉ I SUOI QUADERNI DEL CARCERE SO STIENI SIANO STATI SOSTITUITI DAL CONFESSIONALE DEL “GRANDE FRATELLO”….
Gramsci è stato un grande pensatore, l’autore italiano novecentesco più tradotto al mondo, dopo che in molti qui, sul suo suolo natale, se lo erano scordati perché comunista. Uno che non credeva granché alla tesi di Marx sull’avvento sicuro della rivoluzione, e le contrapponeva l’idea che non ci sarebbe stata nessuna insurrezione se non si fosse tenuta nel debito conto la dimensione soggettiva degli esseri umani. E qui casca l’egemonia culturale. Un concetto piuttosto composito e articolato, e una chiave di lettura straordinaria per capire cosa accade in politica. Per conquistare il potere e subordinare un popolo si può usare il “dominio”, cioè la forza bruta, oppure - con risultati estremamente più proficui - il potere di persuasione, e imporre una forma di “egemonia culturale”. La “sindrome di Stoccolma”, in pratica, per cui la vittima si innamora del carnefice, che l’ha convinta; e, quindi, non sarà in grado di opporsi. Gramsci, che era un marxista molto moderno e originale, e capace di decifrare al meglio i segni del suo tempo, ci ha detto questo e molto altro, come l’analisi dell’americanismo (il modello capitalistico statunitense che ridefinisce l’esistenza stessa degli americani). E andrebbe davvero riscoperto e riattualizzato da una Sinistra senza complessi di inferiorità.
IL PROBLEMA È CHE QUESTA EGEMONIA NON NASCEVA PIÙ IN FABBRICA COME PREDICAVA GRAMSCI, MA PRENDEVA FORMA ALL’INTERNO DEGLI STUDI DI UNA TV COMPLETAMENTE DIVERSA DA QUELLA IN BN: LA TV DELLA PUBBLICITÀ E DEGLI SHOW CON LE BALLERINE SCOSCIATE.
Precisamente, era la tv commerciale, o la “neotelevisione” come l’ha battezzata Umberto Eco, che sorpassava (a destra, possiamo dire, col senno - politico - di poi) la “paleotelevisione” in bianco e nero. E faceva “felicemente” precipitare gli italiani in un universo di lustrini, paillettes, ricchi premi e cotillons, e donne svestite (assecondando un certo diffusissimo voyeurismo da nazione sessualmente repressa, il cui risvolto della medaglia è il proliferare dei “puttanieri”, guarda caso). E, soprattutto, in un mondo di beato e sfrenato consumismo come massimo della soddisfazione e realizzazione individuale.
TU SOSTIENI CHE DOPO L’11 OTTOBRE 1983, PRIMA PUNTATA DI “DRIVE IN” SU ITALIA 1 NULLA FU COME PRIMA. PER TE UNA DATA SPARTIACQUE, MA COME SI È APERTO IL VARCO? ALL’IMPROVVISO L’ITALIA SI CONVERTÌ AL NEOLIBERISMO CELEBRANDO L’AVVENTO DELL’INDIVIDUALISMO? COME SI È POTUTO PASSARE IN UN BATTERE DI CIGLIA DAGLI ANNI DI PIOMBO E DELLA SOLIDARIETÀ NAZIONALE A TUTTO QUESTO?
È l’esito di un processo storico di lungo periodo, preparato negli Stati Uniti da anni, quando l’America - certo con dei difetti, ma pur sempre la migliore che ci sia mai stata - di Roosevelt, dei Kennedy (entrambi ammazzati) e di Lyndon Johnson viene seppellita da quella di Reagan e delle “maggioranze silenziose”. L’arrivo dell’ex attore alla presidenza degli USA, nel 1980, non è un evento casuale, ma il frutto di un capillare e massiccio lavoro di cambiamento della mentalità e di spostamento delle priorità della politica nazionale, aiutato dalla propaganda di una parte rilevantissima dei mass media. Una vera e propria operazione - vittoriosa, ahinoi, anzi trionfale - di conquista dell’egemonia culturale, come l’avrebbe definita il nostro Antonio Gramsci, e che, come una grande onda, si sarebbe diffusa nel resto dell’Occidente, partendo proprio dagli USA e dalla Gran Bretagna (dove, l’anno precedente, aveva vinto “Iron Lady” Margaret Thatcher, che avrebbe distrutto senza pietà il Welfare State inglese, una delle punte più alte raggiunte dalla civiltà europea nel Novecento). E l’onda avrebbe infranto anche le speranze di un mondo migliore scaturite dal Sessantotto e dai movimenti (che pure avevano anch’essi, naturalmente, alcuni aspetti non condivisibili) degli anni Settanta. In Italia si schiacciarono così le mobilitazioni degli studenti e dei lavoratori in un angolo, dicendo che il loro sbocco naturale non poteva che essere la terribile stagione del terrorismo. Una falsità e, anch’essa, un’operazione di manipolazione che trovò terreno fertile anche perché gli italiani erano stati oppressi dagli anni di piombo e, giustamente, volevano chiudere con quella fase. Venne fatta loro la promessa dell’arricchimento garantito e illimitato (la figura del cittadino comune che investiva i suoi risparmi in Borsa, sull’esempio di quanto avveniva in Inghilterra, divenne l’idealtipo dell’epoca), e così la scoperta, golosa e quasi incredula, del consumismo da parte dell’italiano medio, dopo gli anni di piombo e della solidarietà nazionale, ebbe l’effetto di una scossa e di una boccata d’aria (troppo) inebriante, producendo un’impressionante rivoluzione antropologica. Era il debutto della società del Grande Riflusso. E a fare, per un verso da megafono e da specchio e, per l’altro, da catalizzatore e amplificatore di questa mutazione antropologica, c’era la tv commerciale coi suoi “nuovi” programmi, per niente paludati e, anzi, coloratissimi, a cominciare da “Drive In”, quello che possiamo considerare come l’inizio della fine.
CON IL SENNO DEL POI NON PENSI CHE TUTTO SIA STATO PROGRAMMATO IN ANTICIPO? NON VOGLIO DIRE DA GELLI E LA P2, O DA UN IPOTETICO “GRANDE VECCHIO”, CON BERLUSCONI BRACCIO ARMATO, MA PARE TUTTO GIÀ SCRITTO.
Sembra un copione già scritto, infatti. Pianificato in anticipo da qualcuno. Del resto, pur respingendo qualunque dietrologia o inclinazione al complottismo, che non ci piacciono, ci sono dei fatti, come quelli che citi, che vanno semplicemente registrati, se solo si ha l’onestà intellettuale di farlo (mentre al riguardo sembrano imperare, guarda caso, la malafede e la negazione delle evidenze). E altri, come, per fare soltanto un esempio, gli incontri periodici, ogni terzo mercoledì del mese, documentati e raccontati da un giornale non certo scandalistico come il “New York Times”, che vedevano (e vedono in questa, o altra forma) raccogliersi intorno a un tavolo i rappresentanti delle principali banche d’affari statunitensi. I Masters Of The Universe, gli stessi che hanno scatenato l’inferno della crisi dei subprime e che si incontrano per “salvaguardare la stabilità e l’integrità del “mercato” finanziario, come dicono loro. Sarebbe ben curioso che i “padroni del vapore”, o i decision makers come si dice in termini più neutrali, non si incontrassero, consultassero e pianificassero le loro mosse, non trovi? La storia è spinta e agita (anche) da gruppi, “avanguardie”, circoli; sarebbe ridicolo negarlo, anche perché questo genere di negazione o sottovalutazione non aiuta di certo alla comprensione dei fenomeni.
IN FIN DEI CONTI ERA FACILE ENTRARE IN UNA SOCIETÀ ITALIANA TRADIZIONALMENTE ARRETRATA, DOVE LA CHIESA, CON LO STATO, HA SEMPRE IMPARTITO AI CETI SUBORDINATI LA LINEA, CONSISTENTE NELL’ADEGUARSI ALL’ORDINE POLITICO VIGENTE. SIAMO ABITUATI A NON DISCUTERE IL POTERE. SI CHIAMI SIGNORE, PRINCIPE O RE, NOI L’ACCETTIAMO DA SECOLI. MAGARI LO DERIDIAMO, MA NON LO DISCUTIAMO.
È una costante storica, divenuta quasi antropologica: l’omaggio al potere, che genera conformismo e rifiuto del pensiero alternativo. Siamo un popolo tristemente abituato a correre in soccorso dei vincitori. Non siamo gli unici, e ci sono parti importanti della società italiana sane sotto questo profilo, ma certo l’attitudine è estremamente diffusa. E la derisione di chi esercita il comando, cui fai riferimento, infatti, spesso non ha una valenza sovversiva, ma autoconsolatoria o rinunciataria, quando non (come nel caso dello “sberleffo dei potenti” che si verifica in talune trasmissioni) di “distorsione cognitiva”. In quest’ultimo caso, si finge di deridere il potere (per la verità, una porzione selezionata di interessi o di individui potenti) e si distrae il pubblico televisivo (il “popolo” dei nostri tempi), per lasciare indisturbato il vero manovratore, che non viene mai davvero toccato.
ALCUNI STORICI SOSTENGONO CHE IL FASCISMO FU L’ESTREMIZZAZIONE DELLA DELEGA E RINUNCIA ALLA LIBERTÀ, PAURA DELLA LIBERTÀ. CON BERLUSCONI È SUCCESSA UNA COSA SIMILE?
È una tesi interessante, e che spiega molto, a mio giudizio. L’esercizio autentico della libertà è un’attività complessa, perché richiede consapevolezza di sé e dei propri diritti. E senso del rispetto degli altri, volontà di non prevaricare: la mia libertà finisce dove comincia la vostra, come ci ha detto Martin Luther King. E la democrazia è un sistema politico assai difficile che richiede un’educazione alla cittadinanza, e sforzo, impegno da parte di tutti. Una democrazia, così come la libertà, vive davvero soltanto se viene praticata e alimentata da ciascuno di noi, giorno dopo giorno. È un tipo di regime esigente, quindi. Mentre la scorciatoia dell’affidarsi all’uomo forte, a quello cui delegare le attività pubbliche, per farsi così tranquillamente gli affari (quando non gli affaracci) propri, risulta molto più semplice. Ecco perché, nel Paese dove il tornaconto personale è considerato uno dei (dis)valori massimi, la tendenza a cercare un Capo è continua. Ma deleteria, come possiamo vedere continuamente, per la libertà dei singoli e della comunità nel suo complesso.
POSSIBILE CHE LA DESTRA DELLA CULTURA NON SAPPIA COSA FARSENE? APPESANTISCE, ANNOIA E SOPRATTUTTO FA PENSARE, CHE, COME È NOTO, È L’ANTICAMERA DELLA CRITICA?
È soprattutto questo il punto: la cultura genera e alimenta lo spirito critico. E il potere non ama - utilizzo un eufemismo - la capacità di essere critici che, invece, è il principio su cui si deve basare una democrazia. Coltivare il dubbio, e rifiutare qualunque verità assoluta imposta: ecco la dote essenziale di un buon cittadino. E la Destra, che trova nel principio d’autorità uno dei suoi fondamenti politici, risulta particolarmente allergica allo spirito critico.
POSSIBILE CHE D’UN TRATTO TUTTA L’ITALIA ABBIA SENTITO IL BISOGNO DI ACCENDERE LA TV, SEDERSI SUL DIVANO E FINALMENTE RIDERE SGUAIATAMENTE SENZA SENTIRSI IN COLPA E FUORI LUOGO? FINO A PERDERE LA TESTA PER TETTE E CULI. SIAMO UN POPOLO DI ALVARO VITALI POTENZIALI? COME DICEVA GABER “NON HO PAURA DI BERLUSCONI IN SÉ. HO PAURA DI BERLUSCONI CHE È IN ME”.
Tra Otto e Novecento, vari studiosi delle allora nascenti scienze politiche - tutti appartenenti alle classi dirigenti e terrorizzati dal socialismo e dall’organizzarsi del movimento operaio - studiavano preoccupati le dinamiche della “psicologia delle folle” che potevano travolgere e seppellire i valori liberali dell’individuo. Elias Canetti, in un libro straordinario e molto “eccentrico” e fuori dalle consuetudini (Massa e potere), ci ha mostrato cosa accade quando i singoli si fondono in masse indistinte. I regimi totalitari sono stati le palestre dei peggiori istinti animali degli individui che, disciolti in una folla sedotta da un dittatore, perdevano ogni traccia di umanità e si consegnavano a quella che Hannah Arendt ha chiamato la “banalità del male”. E negli Stati Uniti, la prima “democrazia di massa” della Storia occidentale, eserciti di psicologi sociali, esperti di pubbliche relazioni e specialisti di marketing, al servizio della grande industria, si sono dedicati a manipolare, per fini commerciali ed economici, le moltitudini. Sono altrettanti casi, figli dei mutamenti profondi introdotti dalla modernità, di comportamenti che si producono quando gli individui vengono avviluppati all’interno di forme di manipolazione, tanto più forti quanto più straordinaria è la potenza dei mass media, come avviene nella nostra età liquida e postmoderna. Anche perché proprio lo stare all’interno di masse (o branchi), garantisce un senso di terribile “condivisione” (e magari di impunità), che fa perdere ogni freno inibitorio. E, quindi, dovremmo essere giustamente spaventati da quello che sta dentro di noi, che può scatenarsi da un momento all’altro. Se, poi, nel l’Italia berlusconiana, l’egoismo più spinto, il rifiuto della solidarietà e della cultura e la “furbizia” vengono non soltanto sdoganati, ma esaltati, dovremmo avere tremendamente paura di quello che si agita dentro noi stessi quando permettiamo agli animal spirits di sopraffare la nostra parte migliore. E, invece, il vero “miracolo italiano” (deteriore) si è compiuto: e moltissimi sono felicissimi di ostentare il loro volto peggiore, quello che ci allontana dalle nazioni più civili.
LA FUNZIONE DISEDUCATIVA DEL PICCOLO SCHERMO NEI CONFRONTI DELLA NUOVE GENERAZIONI L’AVEVA GIÀ FATTA NOTARE IL POVERO PASOLINI, CHE RISCONTRAVA CON COSTERNAZIONE LA “MUTAZIONE ANTROPOLOGICA” INDOTTA DALL’ELETTRODOMESTICO NEI SUOI AMATI RAGAZZI DI BORGATA E NEGLI ITALIANI TUTTI, DECIMATI DAL GENOCIDIO CULTURALE PRODOTTO DALL’OMOLOGAZIONE E DAL CONSUMISMO, ACCURATAMENTE PIANIFICATI DAL POTERE CAPITALISTICO.
È l’eredità più attuale di Pier Paolo Pasolini, il quale, peraltro, era un po’ troppo innamorato di un’idea arcaica e arcadica di società. Mentre il Pasolini critico, da subito, delle degenerazioni future della società dei consumi e della “mutazione antropologica” (che osservava nei ragazzi delle periferie romane, ma destinata presto a estendersi, in maniera apparentemente irresistibile, a buona parte della società tutta), fu un profeta. Come fu preveggente nell’intuire, senza averne le prove dirette, i contorni multiformi e sfuggenti di un potere ircocervo (in stile P2) che governava illegalmente l’Italia da dietro le quinte. Se il Pasolini scrittore è, per i miei gusti, discutibile, il Pasolini critico e geografo del potere in via di diventare postmoderno ci dice invece moltissimo, e in modo estremamente acuto.
SE LA TV HA FATTO TABULA RASA DELL’INTELLIGENZA DEGLI ITALIANI, HANNO CONTRIBUITO MOLTO ANCHE I GIORNALI. TU CITI ALFONSO SIGNORINI DIRETTORE DEI SETTIMANALI DI MONDADORI “CHI” E “TV SORRISI E CANZONI” CHE HA SVOLTO UN RUOLO DI AUTENTICO POLITICO INCARICATO DI UNA MISSIONE DELICATISSIMA E CENTRALE DAL DIAVOLO DI ARCORE. UN TEMIBILE SPIN DOCTOR… MA NEI SUOI GIORNALI SI SONO ARRUOLATI TANTI EX RIVOLUZIONARI DI PROFESSIONE, MAGARI STANCHI DAL GRIGIORE CHE PERMEAVA LE PROPRIE FILE.
Già. L’attrazione irresistibile esercitata dall’altro da sé (insieme ai benefici professionali), il lato oscuro della Forza (descritto infatti benissimo da un film postmodernissimo come Guerre stellari), che ha traghettato alcuni ex rivoluzionari di professione dal grigiore tetragono di una Sinistra spiazzata e dal fallimento delle utopie al mondo vincente dell’edonismo reaganiano. E berlusconiano, dove imperversa il gran Maestro di cerimonie (politiche) Alfonso Signorini, che possiamo considerare come l’inventore della gossipcrazia e del gossipopolare, il ministro del Mincul (gossi)pop del Premier.
È VERO CHE, COME DICE BATTISTA, LA SINISTRA HA SMESSO DI PENSARE MA LA DESTRA NON HA MAI COMINCIATO?
Dipende da quale tipo di pensiero. Una certa Destra ha utilizzato altri strumenti, come sta accadendo da anni in Italia, per conquista re “i cuori e le menti” degli individui, tenendoli ben lontani dal pensiero, che quando viene esercitato, come sappiamo bene, risulta pericoloso per tutti gli ordini costituiti. Ma l’egemonia sottoculturale che ha imposto è frutto di elaborazione e strategia, e dunque di un certo tipo di pensiero, non emancipatorio, ma volto a tenere le persone in uno stato di soggezione e minorità. Battista, d’altronde, è lo stesso che dopo l’uscita del libro L’egemonia sottoculturale lo ha liquidato scrivendo così sul “Corriere della sera” (6 agosto 2010): “Non si capisce ancora come mai in Italia si apra un dibattito demenziale (non è uno scherzo, c’è un libro apposito di Massimiliano Panarari) imperniato sul seguente, vertiginoso interrogativo modello Monty Python: l’egemonia culturale del Gabibbo ha sostituito quella di Antonio Gramsci?”. Direi che si commenta da sé, e non mi sembra ci sia nulla da aggiungere, se non che i Monty Python erano strepitosi…
PERCHÉ IL NOSTRO GIORNALISMO È DA SEMPRE PRONO AL POTERE E SI DÀ SEMPRE MOLTO DA FARE PER METTERE A PROPRIO AGIO I POTENTI? DIFETTO PRESENTE SIA A DESTRA CHE A SINISTRA. RICORDO QUANDO FABIO FAZIO OSPITÒ FASSINO IN OCCASIONE DELLO SCANDALO UNIPOL-CONSORTE, FASSINO SI DISCOLPÒ DICENDO CHE SI STAVA SOLO INFORMANDO. FAZIO FINSE DI BERSI LA BALLA E PASSÒ OLTRE. L’UOMO GIUSTO AL POSTO GIUSTO.
D’altra parte anche in America i trotskysti sono diventati neocon al servizio di Reagan e Bush e stessa cosa è successa in Inghilterra con la Thatcher. Il conformismo è, purtroppo, nella natura umana; rappresenta un’esigenza psicologica, che diventa fortissima di fronte al potere quando questo decide delle facoltà, della visibilità e degli stipendi dei giornalisti (come di qualunque altra categoria di lavoratori intellettuali). E il potere sa essere molto riconoscente con gli operatori dell’informazione che si adattano e si prestano a fare da megafoni. Vale per l’Italia, come per gli Stati Uniti, come ricordi a proposito di un’esperienza, quella degli ex trotskisti passati al servizio dei regimi neoliberali in cui, oltre all’essere stati comprati, scattò anche un altro meccanismo. Volevano fare la rivoluzione, spaccare il mondo e riplasmarlo: dal momento che non ci erano riusciti da sinistra, si apriva loro la possibilità di fare i “consiglieri del principe” del Verbo neoliberista e di una Destra radicalconservatrice, che nulla aveva più a che fare col liberalismo classico e moderato. Era la “rivoluzione ultraconservatrice”, che distruggeva un vecchio ordine; e, quindi, questi “pentiti” del radicalismo di sinistra potevano persino fingere di mettersi la coscienza a posto, recitando la formuletta della continuità e della fedeltà ai loro ideali giovanili di sconvolgimento dell’ordine delle cose. Sempre “eversivi”, per l’appunto, questa volta dall’altra parte della barricata.
SEMBRA INCREDIBILE OGGI CREDERE CHE LA SINISTRA SIA STATA A SUO TEMPO EGEMONE, ALMENO SUL PIANO CULTURALE E NON ABBIA FATTO NIENTE PER DIFENDERE L’ENORME PATRIMONIO CULTURALE ACCUMULATO IN ANNI DI RIFLESSIONE E DIBATTITO. AL PUNTO CHE, IN CERCA DI RIFERIMENTI ALTERNATIVI RISPETTO ALLA PROPRIA TRADIZIONE, HA INIZIATO CON ESITI DISASTROSI A BAZZICARE GLI STUDI TV. RICORDO FASSINO CON LA VECCHIA TATA…
Si chiama subordinazione culturale. Arriva quando “si getta il bambino con l’acqua sporca”, e si dismettono, insieme all’ideologia, gli ideali politici e culturali, non facendo l’indispensabile sforzo di reinventarli e riaggiornarli in relazione ai cambiamenti della società. Che è il lavoro essenziale che dovrebbe fare una Sinistra seria. E così si lasciano dilagare le varie egemonie sottoculturali, fino a farsene stregare e, come racconta lo spin doctor Alfonso Signorini, il mago della propaganda berlusconiana attraverso il gossip, a piatire interviste sui suoi rotocalchi. Facendo così allontanare tante persone che nella Sinistra credevano e credono.
PERCHÉ NESSUNO SOPPORTA PIÙ LA STORIA? PERCHÉ C’È COSÌ TANTA DIFFICOLTÀ PER CELEBRARE 150 ANNI DELL’UNITÀ D’ITALIA?
Già, non siamo una nazione per molte ragioni. Alcune di lungo corso, come ci spiegano gli storici: il nostro processo di Nation building (di costruzione e unificazione nazionale) è stato ritardato e assai più faticoso rispetto a quello degli altri Paesi europei. Il Risorgimento è stato certamente un processo condotto dalle élites, assai più che autenticamente partecipato dalla popolazione. E siamo da sempre - come diceva, tra Quattro e Cinquecento, lo scrittore e pensatore politico Francesco Guicciardini - un popolo mosso innanzitutto dal proprio “particulare”, il tornaconto personale. In questi ultimi decenni, nel corso dei quali una delle reazioni prevalenti alla globalizzazione si è concretizzata nel populismo e nell’egoismo delle piccole patrie (nutrito spesso di xenofobia), anche da noi si sono diffuse moltissimo le spinte alla disgregazione dell’unità nazionale. E dietro etichette e modelli - sui quali valeva naturalmente la pena di riflettere seriamente, e non di farne slogan improvvisati - come “federalismo” - sono passati disegni di separatismo e potenziale secessione. Ecco perché a molti, troppi, a Nord come a Sud, sta bene indebolire il più possibile il Paese ed esaltare strumentalmente localismi e tradizioni. Ora, nel momento in cui dovremmo cercare di diventare tutti quanti cosmopoliti, ci troviamo a dover difendere l’unità nazionale da violente spinte centrifughe. E, così, il nostro ritardo rispetto ai Paesi normali e civili si incrementa ulteriormente.
LA GELMINI HA DETTO “FINALMENTE ABBIAMO MANDATO IN SOFFITTA IL ’68”. COS’È? IGNORANZA, PROVOCAZIONE?
È pura ideologia (di destra), e una lettura strumentale degli eventi.
COME VEDI IL DECRETO GELMINI SULLA SCUOLA? A SINISTRA SI PIANGE, A DESTRA SI SORRIDE. LA VERITÀ STA NEL MEZZO?
Lo trovo un modo sbagliato per affrontare dei problemi che esistono davvero, e che la Sinistra, per presentarsi come forza innovatrice (e non conservatrice) avrebbe dovuto porre con forza. La nostra Università sta soffocando, non premia il merito (al netto di alcune eccezioni, naturalmente, in università pubbliche e soprattutto private), fa emigrare i cervelli migliori, scivola in fondo nelle graduatorie internazionali. Quanto ci vuole ancora per intervenire?
PARLI MOLTO DI SITUAZIONISTI E DEL COLPO DI STATO INDOLORE. POCO SOPPORTATI AI TEMPI, HANNO VISTO IL FUTURO?
Decisamente sì. Sono stati i profeti lucidissimi della società dello spettacolo; il dramma - a dimostrazione di quanto avessero ragione - è che delle loro teorie possiamo dire che si sono impossessati i loro acerrimi nemici, le destre diventate neoliberali, cioè il nuovo tipo di capitalismo di cui i situazionisti avevano intuito la genesi e la formazione. Il neoliberismo ha occupato militarmente e colonizzato totalitaristicamente il nostro immaginario, piegandolo a fini consumistici e biopolitici. E si è proposto come l’orizzonte pressoché unico, da cui non si scappa, e di cui siamo diventati tutti sudditi inconsapevoli. E all’apparenza pure felici, fino a che le crisi economiche continue, le bolle speculative, le enormi differenze di ricchezza e possibilità non ci ricordano che questo è un regime economico (e politico) fondato sul dominio di pochissimi e l’oppressione dei tanti (che crescono ogni giorno di più, con lo spappolamento delle classi medie considerate inutili e abbandonate al loro destino di impoverimento progressivo da questo neocapitalismo aggressivo che le considera inutili).
SOSTIENI CHE I PRIMI A CEDERE ALLA TV SPAZZATURA SONO STATI PREVALENTEMENTE I SETTENTRIONALI CHE MAI SI SAREBBERO SOGNATI DI RECARSI A TEATRO, NEPPURE PER VEDERE UN’OPERETTA… IL LOMBARDO VENETO E IL PIEMONTE HANNO FATTO DA CAVIA?
Queste regioni settentrionali sono state i laboratori di un modello destinato a diventare dominante; e, non a caso, i luoghi di partenza delle gite per andare a vedere i mobilifici Aiazzone, quelli delle televendite pionieristiche delle reti Fininvest. Era l’Italia dei “bauscia” e delle sterminate piane di capannoni industriali del Veneto che, svolgendo un ruolo di locomotiva economica, si sentivano in diritto di estendere la propria way of life a modello per tutta la nazione, e si preparavano alla presa del potere tramite il tycoon, il padrone delle tv che amavano.
E IN TUTTO QUESTO COME SI COLLOCA LA LEGA?
Ci si colloca perfettamente a proprio agio. Oltre ad avere assunto, giustappunto, un ruolo sempre maggiore di rappresentanza politica di quelle zone del Paese. Aree sempre più spaventate dalla globalizzazione economica e dalle difficoltà della gara economica con altri Paesi (non potendo più contare, tra l’altro, sulla svalutazione competitiva della valuta per le esportazioni a causa della sostituzione della moneta unica, l’euro, alla lira), e dall’immigrazione. E la Lega, che è il principale “imprenditore politico” della paura, propone ricette populiste (tra mille contraddizioni rispetto alla sua azione di governo), così come fanno altri partiti in giro per l’Europa, di tipo xenofobo e sostenitori delle “piccole patrie”. Il populismo, che urla contro la globalizzazione finanziaria e sostiene di difendere i gruppi sociali più penalizzati da essa, non è altro che il rovescio della medaglia di quel neoliberismo che ha intensificato una mondializzazione a senso unico, ispirata alla legge del più forte. E, infatti, i due fenomeni vanno a braccetto e, politicamente, rappresentano due volti della Destra, tra loro esplicitamente o implicitamente alleati.
ANTONIO RICCI, LE “IENE”, ETC. LA LORO L’IRONIA È UNA RISATA CORTIGIANA A FAVORE DEGLI INSERZIONISTI O COMMITTENTI POLITICI CHE SIANO? CLIMA CARNEVALESCO, DISPENSATORE DI NOTIZIE E SOGGETTO DI DENUNCIA, MA LA POLITICA VIENE CARICATURIZZATA, SVILITA, ACCOSTATA A UN’ACCOZZAGLIA DI CASTE EGOISTE, SBEFFEGGIATA SENZA PIETÀ TUTTO PER PORTARE ACQUA AL MULINO DEL CAVALIERE E RENDERGLI SEMPRE PIÙ FACILE LA STRADA VERSO IL POTERE ASSOLUTO?
Se fare satira significa bersagliare il potere e l’ordine sociale, in modo pungente e tagliente, esprimendo, tramite la risata, una critica, le trasmissioni che citi appartengono chiaramente, direi, a un altro genere. Che promuove, appositamente, l’antipolitica, diffondendo l’idea che la politica sia tutta “merda” e, soprattutto, che non si possa contare su di essa per cambiare le cose. Perché lo stato delle cose - cioè l’Italia del Cavaliere, nel mondo neoliberista dell’amico Bush e nell’universo politico autoritario dell’amico Putin - rappresenta la migliore delle situazioni possibili. Risate cortigiane, a maggior gloria del signore della corte, per l’appunto.
MARIA DE FILIPPI STA SCRIVENDO ALCUNE DELLE PAGINE DECISIVE DELLE NEO-SUBCULTURE GIOVANILI ITALIANE… CHE NE PENSI? IL TRONISMO È LA CONDANNA SENZA APPELLO E LA MESSA A MORTE DEL GUSTO ITALIANO?
Io penso di sì. Sono una vera e propria condanna (severissima) della grande predisposizione per l’eleganza e dell’innato gusto italiani. Del resto, come altro possiamo definire una situazione in cui dei tizi nerboruti e muscolosissimi, che si fanno vanto di parlare un italiano “verace” fatto di duecento parole o suppergiù, stretti in improbabili canotte stretch (che sono diventate la disperazione di chiunque non voglia morire stritolato in vestiti di almeno due taglie minori; ma, in questo caso, non c’è alternativa…), passano ore seduti in uno studio tv pontificando sul nulla con una tracotanza impressionante, e lanciando suoni gutturali, mentre va in onda una sorta di sublimazione del rituale di accoppiamento dei fagiani? Lo dico senza alcuno snobismo, e intuendo la volontà di affermarsi dei “tronisti” e delle “corteggiatrici” (per non citare che due delle nuove “figure sociali” lanciate dai programmi di Maria De Filippi). Ma mi domando, e vi chiedo: vi pare giusto? Non c’è un limite, per l’appunto, dettato dal buon gusto e da quella cosa che si chiama intelligenza (che in Italia si cerca di calpestare in ogni occasione)? È questo il modello che vogliamo dare alle generazioni più giovani cui è stata già distrutta la scuola, e a beneficio delle quali nessuno si preoccupa di creare opportunità di occupazione (e men che meno di qualità)?
SOLO CINQUE MILIONI DI ITALIANI POSSIEDONO DAVVERO LE COMPETENZE LINGUISTICHE E CULTURALI PER AFFRONTARE LA SOCIETÀ ODIERNA; LA RESTANTE ENORME PARTE DEL PAESE È VARIAMENTE CLASSIFICABILE SOTTO UNA DELLE CATEGORIE DI ANALFABETISMO. E SI ABBEVERA SOLTANTO AI TG. FORSE LA TV NON DECIDE LE ELEZIONI, MA RESTA FONDAMENTALE PER I PERSONAGGI CHE CREA, PER I MESSAGGI CHE LANCIA, E SOPRATTUTTO PER QUELLO CHE TACE. COME NEL TRUMAN SHOW, QUALCUNO CI AIUTA A PENSARE. E LA SITUAZIONE, ANZICHÉ MIGLIORARE, SI AGGRAVA PROGRESSIVAMENTE. THERE IS NO ALTERNATIVE?
“Tina” (There Is No Alternative, per l’appunto), uno dei mantra dell’epoca neoliberista - in cui, secondo qualcuno, saremmo dovuti persino arrivare alla “fine della Storia”, con il trionfo assoluto del capitalismo e dell’economia di mercato in ogni parte del globo. E uno degli slogan più utilizzati da Margaret Thatcher, la donna politica che ha inaugurato, diventando Primo Ministro della Gran Bretagna nel 1979, il pessimo mondo in cui ci tocca di vivere per colpa di gente come lei e degli avidi padroni della finanza planetaria. Ora, la prima e più importante delle alternative passa sicuramente per la diffusione e la promozione della cultura. Non in senso pedante, ma come passione, curiosità, allargamento degli orizzonti e degli interessi, amore per la lettura e la musica. Da questa curiosità, nasce la volontà di andare a vedere se quello che ci circonda rappresenta tutto quello che effettivamente esiste, oppure se esistono altri mondi possibili; delle alternative, per l’appunto, migliori di ciò che viviamo. Dall’ampliamento degli orizzonti scaturisce così anche lo spirito critico, reso possibile dal confronto tra la nostra esperienza e quelle degli altri. Ora, se tutti i mass media tirano dalla stessa parte e ci descrivono la realtà italiana come il migliore dei mondi possibili, dove non c’è crisi economica e tutti sono sereni e pacificati, ci troviamo - come purtroppo accade, e come fai giustamente notare - in una sorta di terribile e disonesto Truman Show. Un Paese virtuale e iperreale (molto postmoderno, nel senso cattivo del concetto), che ha abolito la realtà. Una specie di grande reality, per l’appunto (e purtroppo). Ecco perché il “padrone del vapore”, che oggi è quello delle tv, ha edificato un’egemonia sottoculturale che toglie e indebolisce le competenze linguistiche e culturali, così da mantenere i sudditi narcotizzati e incapaci di capire davvero il presente e la tristissima Italia contemporanea, dove per i giovani di talento, e per i giovani tutti, più in generale, non c’è posto.
PRIMA DELL’ULTIMA DOMANDA. TU SAI CHE LA ENDEMOL È DI PROPRIETÀ DI BERLUSCONI. È LA SOCIETÀ CHE DETIENE QUASI TUTTI I FORMAT TELEVISIVI (ED I LORO DIRITTI D’AUTORE). PRODUCE, TRA GLI ALTRI “AFFARI TUOI”, “GRANDE FRATELLO”, “LE INVASIONI BARBARICHE”, “CHE TEMPO CHE FA”, “L’ISOLA DEI FAMOSI”, “X-FACTOR” ETC. IN PRATICA MEDIASET GUADAGNA SULLA PUBBLICITÀ DELLE SUE RETI, SUI DIRITTI DELLE TRASMISSIONI RAI. IN PRATICA MEDIASET DIRIGE SE STESSA ED ANCHE LA RAI. QUANDO ANCHE IL PROGRAMMA DI FAZIO E SAVIANO È PRODOTTO DA BERLUSCONI FORSE È TROPPO TARDI PER RIBELLARSI?
È il tema dei media conglomerate quello che sollevi. Una questione decisiva per la democrazia perché una parte significativa dei mass media richiede investimenti ingenti e tante risorse che, nell’epoca neoliberista, hanno assecondato la moltiplicazione a dismisura degli intrecci azionari e proprietari. E, nel settore fondamentale dell’intrattenimento e dell’informazione, questo significa, chiaramente, riduzione degli spazi di libertà. Il caso di Endemol, la multinazionale dell’immaginario globalizzato e standardizzato, è eclatante. Proprio per questo, occorre “impossessarsi” di ogni ambito non controllato e aprire delle taz, “zone temporaneamente autonome” come diceva Ha kim Bey, un maestro dell’anarchia, nelle reti di questi poteri cognitivi. Ritengo che occorrano, quindi, media di strada, strumenti di comunicazione popolari, occasioni di controinformazione, giornali liberi e indipendenti come Il Mucchio e che servano trasmissioni come quella di Saviano e Fazio, e libri fuori dal coro e dalla cappa (e che raggiungano tante persone possibili) all’interno dei grandi gruppi editoriali, compresi, chiaramente, Mondadori ed Einaudi. Serve, in una parola, quel pluralismo delle fonti di informazione che costituisce uno dei pilastri di una vera democrazia liberale, cosa ben lontana dalla visione dei tanti sedicenti liberali di cui ogni giorno ci tocca sentire le “lezioni” - su quasi tutti i mass media - in Italia; e che si riempiono la bocca di parole svuotate del loro significato autentico e girate, come frittelle, in direzioni pelose, strumentali e interessate. Per confondere le persone. Perché le parole sono importanti, e vanno ricondotte ai loro significati originari, altrimenti continueremo a vivere nel regime dell’equivalenza, come lo chiamava il filosofo francese Cornelius Castoriadis, quello del “non importa cosa si dice”, dove vale tutto e il contrario di tutto, come accade nell’Italia attuale.
COME SI FA A REAGIRE A TUTTO QUESTO? SENTO IN GIRO CHE TUTTO È FERMO, CHE TUTTO VA MALE, MA COSÌ È DIFFICILE MUOVERE QUALCUNO PERCHÉ PER MUOVERSI BISOGNA PENSARE CHE VI POSSA ESSERE MOVIMENTO. TU SOSTIENI CHE LA POLITICA DOVREBBE ESSERE IL PRIMO PRODUTTORE DI ANTICORPI. MA NE HA ANCORA LE CAPACITÀ DOPO 30 ANNI DI LAVAGGIO DEL CERVELLO? E QUAL È L’ALTERNATIVA? QUELLA DEL CENTRO SINISTRA SI È RIVELATA POCO APPETITOSA: COALIZIONI RISSOSE, PROPOSTE VAGHE, COMPORTAMENTI IPOCRITI. PUR DI TENER FUORI LA SINISTRA, GIUDICATA INAFFIDABILE, MOLTI ITALIANI AVREBBERO VOTATO IL DEMONIO...
Il problema - vero - penso sia quello di elaborare un’idea diversa di società, e non solo quello di arrivare al potere. Il potere fine a se stesso, infatti, se non è accompagnato da un progetto, si rivela, al contrario, controproducente e corruttivo. Serve un’altra idea di società, dunque. Con il mercato, certamente, perché non abbiamo trovato un modo migliore per fare economia e garantire la circolazione dei beni. Ma, soprattutto, una società più solidale, meno diseguale e capace, al tempo stesso, di valorizzare gli individui e di liberare le loro energie. E più sobria, perché i consumi devono servire a migliorare e rendere più soddisfacenti le nostre esistenze; non siamo noi, persone, a dover essere, come invece succede troppo spesso, funzione dei consumi.
CREDI CHE IL BERLUSCONISMO POTREBBE AVERE QUALCHE PERICOLOSO COLPO DI CODA E POTREBBE CONTINUARE AD IMPEDIRE A QUESTO PAESE DI AVERE E TENTARE ALTRE POSSIBILITÀ?
I blocchi economici e sociali dominanti, nelle democrazie imperfette e con scarse alternanze, fanno molta fatica a mollare il potere. Ciò vale, a maggior ragione, per un potere onnipervasivo, come quello attuale, in una società postdemocratica come la nostra. E, dal momento che il berlusconismo è la reincarnazione (rivisitata in chiave postmoderna) di una tendenza eterna della politica italiana (che è riuscita a entrare così profondamente, e trasversalmente, nel corpo sociale), le macerie rimarranno, malauguratamente, a lungo, molto a lungo. E, quindi, dobbiamo prepararci, coi nervi saldi e molta lucidità, a una lunga traversata nel deserto e a fare uno sforzo di creatività (politica e culturale) vera per raddrizzare la barra del Paese, e portarlo fuori da quell’atmosfera triste e plumbea in cui è stato sprofondato.
MARINO SEVERINI SOSTIENE CHE OCCORRE UN NUOVO UMANESIMO CHE SIA CAPACE DI FARCI RITROVARE IN UNA NUOVA UNITÀ E CI COINVOLGA IN UN PROGETTO IN CUI NOI TORNIAMO POPOLO E NON PIÙ PLEBE. LA POLITICA CONCEPITA COME STRUMENTO DELLA LOTTA CHE L’UOMO HA INGAGGIATO DA SECOLI PER LA SUA PROGRESSIVA LIBERAZIONE DA TUTTI I SERVAGGI, LE IGNORANZE, LE PAURE CHE HANNO ACCOMPAGNATO LA SUA STORIA, COMPRESA LA LOTTA PER L’EMANCIPAZIONE DEL LAVORO.
Sì, è vero; e l’impegno politico della sua band, d’altronde, va proprio in quella direzione. Direi che occorre un “umanesimo postmoderno”, chiamiamolo così, cosciente della fine delle ideologie come sistemi chiusi e oppressivi, ma in grado di rilanciare degli ideali, culturali, civili, etici. Un “umanesimo postmoderno” che creda nella politica come strumento di cambiamento e liberazione degli individui. Senza politica una società muore, e diventa preda indifesa di qualcos’altro, come l’economia inumana che ci sta opprimendo da decenni. Più politica, dunque, altro che meno. Certo, una politica intesa come spirito di servizio e ricerca del bene comune: parole antiche per un’esigenza eterna delle comunità.  

La banda Casaroli

anno: 1962       
regia: VANCINI, FLORESTANO
genere: drammatico
con Renato Salvatori, Jean-Claude Brialy, Tomas Milian, Gabriele Tinti, Adriano Micantoni, Isa Querio, Marcello Tusco, Michele Sakara, Mariella Zanetti, Calisto Calisti, Marcella Rovena, Beatrice Altariba, Anna Mazzanti, Maria Grazia Marescalchi, Yvette Masson, Leonardo Severini, Loredana Cappelletti 
location: Italia       
voto: 5,5


Nel 1950 una banda di tre balordi, orfani del fascismo, guidata da Paolo Casaroli seminò il terrore a Bologna (con un'incursione anche a Roma) commettendo omicidi e rapine. La breve serie di efferati colpi si arrestò in un epilogo che ebbe del grottesco: due di loro rimasero intrappolati all'interno di un'auto sottratta a un passante che però non partì: Casaroli venne ferito, il suo complice si suicidò freddamente.
Fedelissimo alla cronaca dei fatti, il film di Vancini guarda a quella stagione, collocata ad appena cinque anni dalla fine della guerra, come all'incapacità di riporre le armi ma anche a uno dei primi sussulti di una smania di avere tutto e subito, che avrebbe contagiato febbrilmente gli italiani a partire dagli anni '80. Lo fa attraverso lo sguardo smarrito del complice scampato alla sparatoria (Milian), il ragazzo dall'apparenza bonaria e tranquilla che si ritrovò in un gioco più grande di lui e che finì suicida dentro un cinema. Diseguale nelle sue parti, il film ha un lungo prologo incentrato sulla vita dei tre vitelloni di provincia smaniosi di fare soldi e nostalgici dei tempi della Decina Mas, mentre concede il minimo necessario alla ricostruzione delle azioni criminose dei tre, evitando così ogni tentazione voyeuristica. Un stile in cabina di regia più vibrante e teso e un'analisi più approfondita sul retroterra culturale di questo stravagante bandito e dei suoi complici avrebbero forse giovato al film.    

mercoledì 2 febbraio 2011

Febbre da fieno

anno: 2010       
regia: LUCHETTI, LAURA
genere: commedia
con Andrea Bosca, Diane Fleri, Giulia Michelini, Giuseppe Gandini, Camilla Filippi, Cecilia Cinardi, Marco Todisco, Mauro Ursella, Beniamino Marcone, Angela Goodwin, Pietro Ragusa, Fabrizio Sabatucci, Gabriele Sangrigoli, Elena Costa
location: Italia       
voto: 2


In un negozietto di modernariato di Roma, specializzato in articoli vintage degli anni '70, il proprietario (Gandini) è sull'orlo della chiusura e i tre ragazzetti che lavorano con lui sono alla ricerca di un amore che non trovano. Matteo (Bosca) non riesce a dimenticare la donna che lo ha lasciato per un'altra, Camilla (Fleri) è innamorata di Matteo ma non riesce a farglielo capire e Franky (Michelini) vive nel mondo dei sogni.
Dopo aver girato un episodio di Feisbum, Laura Luchetti conferma una certa propensione verso il teen movie dirigendo il suo primo lungometraggio tratto da un suo romanzo (!!!). Nonostante la formazione british, il modello al quale la giovane regista romana sembra ispirarsi pare quello della Amelie di Jeunet: stesso sguardo dai tetti, stesso uso della luce a forti contrasti, stessi cromatismi sgargianti, stesso approccio trasognato. Qui però siamo distanti anni luce dal geniale cineasta francese: la vicenda è a dir poco scialba e pretestuosa, gli snodi narrativi farraginosi e Roma è fotografata nella sua veste più da cartolina: mancano solo fontana di Trevi e piazza Navona.    

martedì 1 febbraio 2011

Il discorso del Re (The King's Speech)

anno: 2010       
regia: HOOPER, TOM
genere: storico
con Colin Firth, Geoffrey Rush, Helena Bonham Carter, Derek Jacobi, Robert Portal, Richard Dixon, Paul Trussell, Adrian Scarborough, Andrew Havill, Charles Armstrong, Roger Hammond, Calum Gittins, Jennifer Ehle, Dominic Applewhite, Ben Wimsett, Freya Wilson, Ramona Marquez, David Bamber, Jake Hathaway, Michael Gambon, Guy Pearce, Patrick Ryecart, Teresa Gallagher, Simon Chandler, Claire Bloom, Orlando Wells, Tim Downie, Dick Ward, Eve Best, John Albasiny, Timothy Spall, Danny Emes, Anthony Andrews, John Warnaby, Roger Parrott
location: Regno Unito       
voto: 7


Alla vigilia della seconda guerra mondiale il re d'Inghilterra lascia come erede al trono il figlio maggiore, costretto però ad abdicare perché intenzionato a sposarsi con una donna divorziata due volte. Gli succede allora re Giorgio VI (Firth), refrattario alla vita politica ma solerte e responsabile e al tempo stesso terrorizzato dall'idea di dover parlare in pubblico a causa della sua balbuzie. Consultati logopedisti di ogni ordine e grado, finisce col rivolgersi a Lionel Logue (Rush), un praticante australiano dai metodi eterodossi, che però sarà l'unico a riuscire nell'impresa al punto di prepararlo per un toccante e solenne discorso di entrata in guerra contro la Germania di Hitler.
La corona inglese continua a fornire costantemente materia per il cinema: basterebbe ricordare La pazzia di re Giorgio, La mia regina o The queen. Come nel caso di questi illustri precedenti, anche in questo lo sguardo va oltre le quinte della vita regale per offrirci uno scorcio di vita vissuta, con le tensioni e i patemi dei normali mortali. Il film, raffinatissimo e di solido impianto teatrale, è tutto giocato sulla sfida a colpi di fioretto tra un geniale quanto sedicente logopedista e un regnante diffidente quanto attratto dal gioco tutto di nervi della titanica impresa. Sullo sfondo ci sono Buckingham Palace e Westminster, suggello scenografico a un cinema di stampo rigidamente classico, con macchina da presa ben piantata a terra e montaggio essenziale che tuttavia non manca di sorprendere, vuoi per l'efficacia dei dialoghi vuoi per la prova magistrale offerta dai due protagonisti, con un Geoffrey Rush che conferma lo sterminato talento mostrato in Shine e Tu chiamami Peter. Golden Globe 2011 a Colin Firth come miglior attore protagonista di film drammatico.