lunedì 27 febbraio 2017

Moonlight

anno: 2016       
regia: JENKINS, BARRY   
genere: drammatico   
con Alex R. Hibbert, Ashton Sanders, Trevante Rhodes, Mahershala Ali (Mahershalalhashbaz Ali), Naomie Harris, Janelle Monáe, André Holland, Jharrel Jerome, Jaden Piner, Larry Anderson, Herveline Moncion, Don Seward, Patrick Decile, Tanisha Cidel, Shariff Earp, Duan'Sandy' Sanderson, Stephon Bron, Edson Jean, Fransley Hyppolite, Rudi Goblen    
location: Usa
voto: 4   

Con il terzo mistero di Fatima, la scomparsa di Atlantide, i geroglifici di Nazca e le girandole delle relazioni amorose, l'assegnazione dell'Oscar a Moonlight è uno dei grandi misteri della storia dell'umanità. La spiegazione più plausibile è che l'establishment hollywoodiano abbia voluto mandare un messaggio chiaro e forte a Trump in merito alle sue misure sull'immigrazione e la discriminazione. Senza nulla togliere alla rilevanza etica e politico-sociale del tema trattato nel film - la discriminazione su base sessuale - il film di Barry Jenkins (tratto dalla pièce teatrale In Moonlight Black Boys Look Blue, scritto da Tarell Alvin McCraney) è un bigino che in tre capitoli - infanzia, adolescenza ed età adulta - inanella tutte le disgrazie che possano capitare a un ragazzino di nome Chiron: suo padre non esiste, sua madre è una prostituta tossica che riceve clienti in casa, a scuola i suoi amici non si fanno scrupolo a fare i bulli con lui, il suo mentore è uno spacciatore nero dal cuore d'oro (Ali: un Oscar anche per lui come miglior attore non protagonista). Ovviamente Chiron vive in una stamberga, è nero e omosessuale. Un'omosessualità inespressa, la sua, captata con chissà quale strumento dai rabdomanti della discriminazione sessuale ed elemento giocato in sordina da un film oleografico con tentazioni autoriali da immaginario queer, ma dal ritmo monocorde e carico di un sentimentalismo precotto che non si preoccupa neppure di controllare gli aspetti formali, a cominciare dalla scelta dei tre che impersonano il protagonista.    

giovedì 23 febbraio 2017

American Pastoral

anno: 2016       
regia: McGREGOR, EWAN
genere: drammatico
con Ewan McGregor, Dakota Fanning, Jennifer Connelly, David Strathairn, Uzo Aduba, Valorie Curry, Rupert Evans, Peter Riegert, Molly Parker, Hannah Nordberg, Ocean James, David Whalen, Julia Silverman, Corrie Danieley, Mark Hildreth    
location: Usa
voto: 3

Difficile portare sul grande schermo un autore complesso (dicono i ben informati) come Philip Roth (che al cinema aveva già "regalato" Lezioni d'amore, La macchia umana e Lamento di Portnoy), tanto più se sei alle prime armi con la macchina da presa. Ewan McGregor, attore britannico con molti successi alle spalle e una disposizione di fondo per copioni mediocri (The eye, Angeli & Demoni), si è cimentato nell'impresa dimostrando di padroneggiare i rudimenti della regia ma lasciandosi scappare di mano il tessuto del racconto. Che è questo: siamo nel New Jersey, negli anni Sessanta. Seymour Levov (McGregor), chiamato da tutti "lo svedese", e Dawn (Connelly) sono felicemente sposati nonostante le resistenze del padre di lui (Riegert), che vorrebbe a tutti i costi per suo figlio una donna ebrea. I guai e la discesa negli inferi cominciano con la crescita della loro unica figlia, una ragazzina balbuziente e petulante per sopportare la quale ci vuole la pazienza di Giobbe. Le cose precipitano quando la ragazza, ormai sedicenne (Fanning), sparisce da casa ed entra in clandestinità dopo aver effettuato alcuni attentati dinamitardi come fiancheggiatrice delle Pantere Nere. Sua madre, che mal la sopportava, tira un respiro di sollievo. Suo padre non si dà per vinto.
I fedelissimi di Roth avranno pane per i loro denti per esercitarsi nell'esegesi del loro beniamino, che con Pastorale americana si aggiudicò il Pulitzer per la letteratura nel 1998. Saranno probabilmente meno contenti del fatto che ciò che esce dal film di McGregor è un'opera che sembra una caricatura tanto del tramonto del sogno americano, segnato dall'inasprirsi del conflitto generazionale, quanto di quell'importante stagione dei diritti civili durante la quale non mancarono azzardi e conflitti. Un'opera per di più sciatta, montata approssimativamente e con un pessimo lavoro condotto in fase di trucco. Altro che certe donne che stanno benissimo anche senza. Vero Jennifer Connelly?    

venerdì 17 febbraio 2017

La ragazza senza nome (La fille inconnue)

anno: 2016       
regia: DARDENNE, JEAN-PIERRE * DARDENNE, LUC 
genere: drammatico 
con Adèle Haenel, Olivier Bonnaud, Jérémie Renier, Louka Minnella, Christelle Cornil, Nadège Ouedraogo, Olivier Gourmet, Pierre Sumkay, Yves Larec, Ben Hamidou, Laurent Caron, Fabrizio Rongione, Jean-Michel Balthazar, Thomas Doret, Marc Zinga    
location: Belgio
voto: 6 

Tutto il cinema dei Dardenne si impernia su un dilemma morale. Non fa eccezione questo La ragazza senza nome. Le differenze le fanno le situazioni e, soprattutto, il modo attraverso cui il protagonista di turno arriva a dover prendere una decisione cruciale. Stavolta ci troviamo, come di consueto, nella provincia belga, a Liegi. Jenny (Haenel) è una giovane dottoressa impiegata in un ambulatorio pubblico ma in procinto di venire assunta da una clinica dove potrebbe avere responsabilità assai più consistenti e un più lauto stipendio. Il condizionale è d'obbligo, giacché la sua vita cambia improvvisamente dopo aver saputo che una giovane prostituta è morta un attimo dopo avere citofonato all'ambulatorio dove Jenny Lavora, un'ora dopo l'orario di chiusura. A quella citofonata Jenny non rispose. La determinazione a trovare un nome a quella ragazza, morta chissà come e rinvenuta senza documenti, diventa lo scopo ultimo dell'esistenza della giovane dottoressa, conseguito con un'invincibile fede, ricavata dall'urgenza di pacificarsi per quell'enorme responsabilità.
Regolarmente osannati (e premiati dalla critica) i fratelli più famosi del Belgio sono stati accolti freddamente a Cannes, al punto di decidere di rimettere mano al montaggio del film prima della sua distribuzione in sala. L'operazione di sartoria è tuttavia solo un rammendo su un film decisamente meno riuscito di opere come L'enfant o Il matrimonio di Lorna. Fedeli ad uno stile scarnificato, minimalista, senza musica, con pochi movimenti di macchina e lo sguardo spesso incollato sulla protagonista, Jean-Pierre e Luc Dardenne stavolta sembrano trascurare il dispositivo narrativo, trasformando la sete di verità della giovane protagonista in un'ossessione dalle venature cristologiche e tingendo di giallo un racconto drammatico che sembra concepito sul modello di Dieci piccoli indiani.    

giovedì 16 febbraio 2017

Lion - La strada verso casa

anno: 2016       
regia: DAVIS, GARTH   
genere: drammatico   
con Dev Patel, Nicole Kidman, Rooney Mara, David Wenham, Sunny Pawar, Abhishek Bharate, Priyanka Bose, Tannishtha Chatterjee, Nawazuddin Siddiqui, Deepti Naval, Divian Ladwa, Sachin Joab, Pallavi Sharda, Arka Das, Emilie Cocquerel, Eamon Farren, Menik Gooneratne    
location: Australia, India
voto: 8   

1986. Il piccolo, tenerissimo Saroo (Pawar) vive con il fratello maggiore, la sorellina e la mamma in una regione poverissima dell'India. Lui ha appena quattro anni ma una volontà di ferro e così decide di possedere già abbastanza muscoli per aiutare il fratello maggiore a trasportare pietre, l'unico lavoro con cui una famiglia a economia sotto il livello minimo di sussitenza riesce a sfamarsi. Non ce la fa, è stanco, trova ricovero in un treno e finisce a 1600 chilometri dalla stazione dove è salito, senza sapere il nome corretto del paesino dal quale proviene e senza parlare il bengali, la lingua diffusa a Calcutta, dove il treno si è fermato. È qui che ha inizio l'interminabile odissea di questo bambino volitivo, intelligente, svelto, determinato, costretto a sopravvivere tra retate ai danni degli orfani di strada, minacce pedofile, istituzionalizzazione coatta. La svolta, della sua vita come del film, arriva quando una coppia australiana decide di adottarlo. Grazie ai suoi nuovi genitori Saroo, ormai trentenne (Patel), conoscerà benessere e cultura, troverà l'amore ma continuerà a cercare la sua famiglia d'origine senza farne parola con i genitori adottivi.
Lion (dal nome indiano storpiato del piccolo, straordinario protagonista) è il film che non ti aspetti: due ore di tempesta emotiva incardinata su un racconto dalla struttura assai classica, ma capace di non essere mai ricattatoria con lo spettatore, nonostante la ridda di buoni sentimenti che esprime. Con le sue riflessioni sull'ottimismo dei poveri, le potenzialità della tecnologia e la condizione dei bambini di strada, il film tratto dall'autobiografia che racconta la vera storia di Saroo Brierley è un apologo riuscitissimo sul potenziale esplosivo di una decisione che può catapultarci in un'altra vita, raccontato sotto forma di romanzo di formazione in chiave avventurosa. Salvo poi ritrovare l'abbraccio delle persone che ami, come nella struggente scena finale, riprodotta anche con i veri personaggi di questa incredibile vicenda risolta con l'aiuto di Google Earth e di una frittella.    

lunedì 13 febbraio 2017

La verità sta in cielo

anno: 2016       
regia: FAENZA, ROBERTO
genere: storico
con Riccardo Scamarcio, Maya Sansa, Greta Scarano, Valentina Lodovini, Shel Shapiro, Tommaso Lazotti, Luciano Roffi, Anthony Souter, Elettra Orlandi, Alessandro Bertolucci, Giacomo Gonnella, Alberto Cracco, Paul Randall, Vincenzo Failla    
location: Italia
voto: 2,5

Roberto Faenza è un regista che - insieme a Florestano Vancini, Renzo Martinelli, Carlo Lizzani e Giuseppe Ferrara - appartiene a quella sparuta cerchia di cineasti che, nella loro carriera, si sono sempre sforzati di stare a un passo dalla cronaca (o dalla storia), con esiti spesso non proprio esaltanti. Dopo il ritratto di don Puglisi (Alla luce del sole) e l'assai meno riuscito film per la tv Il delitto di via Poma, l'ormai ultrasettantenne regista torinese tocca uno dei punti più bassi della sua carriera nel tentativo di ricostruire il dedalo di relazioni che, tra la fine degli anni '70 e l'inizio del decennio successivo, portò al rapimento della quindicenne Emanuela Orlandi, figlia di un messo pontificio, nel 1983. Si trattò di un groviglio intricatissimo nel quale furono coinvolti la banda della Magliana (e in particolare uno dei suoi uomini di punta, Enrico De Pedis, detto Renatino), lo IOR (cioè la banca vaticana) di Marcinkus, importanti uomini di stato oggetto di ricatti, l'uccisione di papa Luciani e la trattativa per la scarcerazione di Ali Agca, l'uomo che - se avesse frequentato un po' più spesso il pioligono di tiro - avrebbe sollevato l'umanità da parecchi dei crimini del suo bersaglio, Karol Woijtyla. Per raccontare ciò che è stato detto infinitamente meglio nel lavoro giornalistico di Carlo Lucarelli in Blu notte e comunque già raccontato da Ferrara ne I banchieri di Dio, accennato da Michele Placido in Un eroe Borghese, descritto pessimamente da Daniele Costantini in Fatti della banda della Magliana o magistralmente dallo stesso Placido in Romanzo criminale, Faenza imbocca la strada del bigino: stampa sulle bocche dei protagonisti la sceneggiatura, che viene semplicemente declamata, ricostruendo le scene d'azione con qualche ripresa di raccordo o con immagini di repertorio. Il tessuto connettivo tenta di legare le vicende di ieri (la tesi del film è che la Orlandi sarebbe stata rapita affinché il Vaticano restituisse alla Banda della Magliana il maltolto che era stato "lavato" nella banca di Calvi per andare a rimpinguare le casse dello Ior) con quelle di oggi (le rivelazioni di Massimo Carminati, epigono della stessa banda), sulle quali indaga una giornalista (interpretata con la consueta mutria da Maya Sansa, che sembra reduce da un trattamento di tassidermia) in tandem con un'altra giornalista (Lodovini) che ebbe un contatto con Sabrina Minardi (Scarano), la ex compagna di De Pedis (Scamarcio). Pasticciatissimo, recitato in maniera imbarazzante (al confronto, Penny avrebbe fatto un figurone), La verità sta in cielo è quanto di più distante possa esserci da un'idea di cinema-cinema.    

domenica 12 febbraio 2017

Smetto quando voglio - Masterclass

anno: 2017       
regia: SIBILIA, SYDNEY 
genere: commedia 
con Edoardo Leo, Valerio Aprea, Paolo Calabresi, Libero De Rienzo, Stefano Fresi, Lorenzo Lavia, Pietro Sermonti, Marco Bonini, Rosario Lisma, Giampaolo Morelli, Luigi Lo Cascio, Greta Scarano, Valeria Solarino, Neri Marcorè    
location: Italia, Nigeria, Thailandia
voto: 3,5 

Dopo lo strepitoso successo al box office ottenuto nel 2014, Sydney Sibilia tenta il bis - in attesa del terzo episodio - con un'operina esilissima, bigiotteria spacciata per articolo di lusso, uno spot interminabile in attesa del capitolo finale. Se nel primo episodio l'idea dei ricercatori universitari precari costretti a reinventarsi extra leges come narcotrafficanti di una smart drug fuori dai listini delle sostanze vietate sollevava in maniera ironica, pur nel suo cerchiobottismo, un problema reale, qui lo spunto viene ripreso in modo appena accennato, mentre la regia preferisce spingere sul pedale del ritmo. A questo giro, infatti, la banda di ricercatori, e con il capo Edoardo Leo costretto dietro le sbarre, deve collaborare con l'ispettore di Polizia Paola Coletti (una Greta Scarano totalmente fuori parte) per rintracciare tutte le droghe sintetiche non ancora illegalizzate che circolano nella capitale. In cambio, tutti i membri della banda si ritroveranno con la Fedi-na penale pulita.
In attesa di smettere quando vogliono (speriamo davvero non oltre il terzo episodio, dove si prevede l'arrivo di Luigi Lo Cascio, che qui concede un cameo), Sibilia cambia radicalmente la squadra di sceneggiatori per offrire al pubblico nient'altro che acqua di rose: effetti speciali (compresa uno spezzone in rotoscope e la devastazione delle terme di Villa Adriana), lunghe citazioni in stile Indiana Jones, siparietti didascalici per presentarci i nuovi innesti della banda - con l'ingegnere Giampaolo Morelli e l'esperto di anatomia Marco Bonini - in gag scult praticamente identiche e cartoline dalla Tailandia e dalla Nigeria. Un vuoto pneumatico di idee riscattato soltanto da qualche battuta azzeccata.    

giovedì 9 febbraio 2017

Inferno

anno: 2016       
regia: HOWARD, RON
genere: thriller
con Tom Hanks, Felicity Jones, Irrfan Khan, Omar Sy, Ben Foster, Sidse Babett Knudsen, Ana Ularu, Ida Darvish, Christian Stelluti, Jon Donahue, Xavier Laurent, Mehmet Ergen, Fausto Maria Sciarappa, Cesare Cremonini, Paolo Antonio Simioni, Fortunato Cerlino, Francesca Inaudi    
location: Italia, Turchia, Usa
voto: 3

L'happening tra il regista Ron Howard, l'attore Tom Hanks e lo scrittore Dan Brown arriva al terzo appuntamento da blockbuster, non meno fracassone dei due precedenti. Stavolta la caccia al tesoro non è organizzata né al Louvre, né al Vaticano né tanto meno dalle parti di via Petra.  Siamo invece a Firenze, città dove il protagonista in stato semiconfusionale deve sbrogliare l'intricatissima matassa che dall'Inferno dantesco porta fino a un virus che un tycoon della finanza (Foster) vorrebbe utilizzare per dare una sfoltita all'umanità prima che questa si estingua da sola a causa dei problemi creati dalla sovrappopolazione. Il giochetto è più complicato del previsto, il balordo Paperone va al creatore anzitempo ma alla minaccia virale rimangono interessati a vario titolo anche altri. Esito telefonatissimo in uno dei luoghi più suggestivi di Istanbul (ah, esserci stati…).
Gli ingredienti dei ponderosissimi tomi usati dal fortunato scrittore del New Hampshire sono sempre gli stessi: intreccio arzigogolatissimo, riferimenti "colti" (il virgolettato è d'obbligo) al Medioevo e al Rinascimento italiani, richiami all'arte, misteri da svelare che solo il super esperto professor Langdon (alias Tom Hanks) potrà risolvere.
Dopo Il Codice Da Vinci e Angeli & Demoni, il supertrio tocca tuttavia il suo punto più basso, nonostante la regia sempre molto professionale di Howard riesca a trovare più di una soluzione visiva originale: due ore di azione confusa, dialoghi involontariamente grotteschi (su tutti, il pistolotto sulle sorti dell'umanità nel momento di massima tensione del film), Firenze, Venezia e Istanbul riprese in un modo che più da cartolina non si potrebbe e un product placement insopportabilmente sfacciato.
   

domenica 5 febbraio 2017

Alla ricerca di Vivian Maier (Finding Vivian Maier)

anno: 2013   
regia: MALOOF, JOHN * SISKEL, CHARLIE  
genere: documentario  
con Vivian Maier, John Maloof, Mary Ellen Mark, Phil Donahue, Daniel Arnaud, Simon Amédé, Maren Baylaender, Eula Biss, Bindy Bitterman, Roger Carlson, Karen Frank, Dayanara Garcia, Howard Greenberg    
location: Usa
voto: 8  

Usava una Rolleiflex 6x6 - una di quelle fotocamere con il visore che puoi controllare dall'alto senza nascondertici dietro - Vivian Maier, la tata genio della fotografia destinata a gloria postuma, colei che in vita non pubblicò neppure uno dei suoi splendidi scatti. La Maier usava quella macchina fotografica con una padronanza, una creatività, un senso dell'inquadratura e una capacità di arrivare a ridosso delle persone davvero impressionanti. Un enorme talento naturale, il suo. A scoprire le centinaia di migliaia di scatti accumulati compulsivamente nel corso degli anni e rinchiusi in enormi quanto pesantissimi recipienti che - unitamente a una montagna di giornali - arrivarono a curvare il pavimento di una delle abitazioni dove visse è stato John Maloof, un giovane rigattiere americano frequentatore d'aste, che per una cifra contenuta ha scoperto un immenso tesoro. Il documentario che lui stesso ha girato a quattro mani con Charlie Siskel testimonia, con una struttura a puzzle, l'incredibile vicenda di questo personaggio di origini francesi e alquanto eterodosso, il lungo tragitto che dallo scanner di casa Maloof ha portato alle gallerie d'arte di mezzo mondo le foto di questa bambinaia misantropa, sessuofoba, altissima, scorbutica, senza amici, senza Musa (ne so qualcosa) ma con un muso sempre accigliato, ricordata con parole sgradevoli dai bambini ormai diventati adulti che le furono consegnati, determinata a non voler svelare a nessuno la sua opera titanica (lei stessa non vide mai moltissimi rullini, che rimasero da sviluppare dopo la sua morte, nel 2009). Il film ricostruisce, servendosi di moltissimi scatti della nanny più famosa della storia della fotografia, la sua avventura personale e quella del ritrovamento di questo scrigno dei tesori che ci restituisce un bel pezzo di storia sociale americana senza fronzoli ma con qualche trovata visiva magistrale (a partire dalle inquadrature dall'alto della miriade di oggetti inutili - biglietti del treno, ricevute, scontrini, rimborsi fiscali mai incassati - che la donna collezionava). Con Il sale della terra, uno dei migliori documentari che siano mai stati dedicati alla fotografia.    

sabato 4 febbraio 2017

The elephant man

anno: 1980   
regia: LYNCH, DAVID   
con John Hurt, Anthony Hopkins, John Gielgud, Freddie Jones, Anne Bancroft, John Standing, Michael Elphick, Hannah Gordon, Wendy Hiller, Helen Ryan, Lydia Lisle    
location: Regno Unito, Usa
voto: 8   

John Merrick (Hurt) è un ventunenne colpito da neurofibrosi multipla, una rarissima malattia che gli ha completamente deformato la faccia e il corpo. Viene sfruttato da un lurido ubriacone come fenomeno da baraccone, esposto brutalmente al pubblico e bastonato a dovere. A lui si interessa il dottor Treves (Hopkins), che trova il modo per sottrarlo dalle grinfie del suo sfruttatore presentandolo a una conferenza medica e facendolo ricoverare nella clinica dove lavora. Ma qui le traversie di Merrick non sono ancora finite: prima l'alta società della Londra vittoriana (siamo a metà ottocento), quindi un portantino della stessa clinica continuano a trattare lo sventurato ragazzo colmo di sentimenti e nobilissimo d'animo come un freak da esporre al pubblico ludibrio o, a seconda dei casi, da compatire.
Con The elephant man, a 35 anni David Lynch firma il suo capolavoro assoluto, un'opera imperniata sul contrasto tra il bene e il male, un apologo - tratto da una storia vera - sul diritto a una vita normale anche per gli ultimi. Girato in un bianco e nero che conferisce al film tinte gotiche, The elephant man riesce a rimanere sobriamente in equilibrio rispetto a qualsiasi tentazione buionista e a reggere egregiamente il peso degli anni, nonostante qualche allettamento didascalico sull brutalità del volgo, l'ipocrisia dell'aristocrazia londinese, la rettitudine degli esclusi e via sociologizzando.