mercoledì 15 dicembre 2010

In un mondo migliore (Hævnen)

anno: 2010       
regia: BIER, SUSANNE
genere: drammatico
con Mikael Persbrandt, Trine Dyrholm, Ulrich Thomsen, Elsebeth Steentoft, Satu Helena Mikkelinen, Camilla Gottlieb, Martin Buch, Markus Rygaard, William Jøhnk Juels Nielsen, Toke Lars Bjarke, Anette Støvelbæk, Kim Bodnia, Bodil Jørgensen, Ditte Gråbøl, Eddie Kihani Johnson, Gabriel Muli, Mary Hounu Moat, Synah Berchet, June Waweru, Emily Mglaya, Wil Johnson
location: Danimarca       
voto: 10

Lasciata Londra dopo la morte della madre, il dodicenne Christian (Nielsen) va in Danimarca con il padre (Thomsen) e fa amicizia con Elias (Rygaard), con il quale viene vessato da un compagno di scuola. Si vendica. Così come decide di vendicare l'offesa, perpetrata a furia di schiaffi, che il padre di Elias (Persbrandt) - un medico che opera nell'Africa equatoriale per conto di Emergency - ha ricevuto da un energumeno, con modalità e conseguenze che rischiano di diventare irreversibili.
La Bier, una delle più grandi registe della storia del cinema, firma il suo capolavoro con un film che riesce a maneggiare prodigiosamente moltissima materia filmica. Costruito intorno alla figura del padre (quello di Elias è uno dei più straordinari che si siano visti sul grande schermo, il genitore che tutti vorremmo), il film mette in scena la dialettica tra razionalità e istinto, tra il tentativo gandhiano di educare all'esercizio, qui laicissimo, del porre l'altra guancia e il pragmatismo ruvido di chi vuole risolvere le cose con la violenza e sa che questa pratica è redditizia. In questo scontro tra testa e pancia nel perimetro di un'opera che riesce ad essere altamente morale senza mai sfiorare alcuna forma di moralismo, ritroviamo molti dei temi cari alla regista danese: la malattia e il tradimento (come in Open hearts), la guerra (come in Non desiderare la donna d'altri), il volontariato e la malattia (come in Dopo il matrimonio), l'elaborazione di un lutto e l'amicizia (come in Noi due sconosciuti) ma anche la separazione, la vendetta (il titolo originale del film, Heavnen, vuol dire proprio vendetta), la pietà, il bullismo. Con l'abituale sceneggiatore Anders Thomas Jensen, la Bier riesce nel miracolo di uno script quasi bergmaniano, intenso, commovente senza mai essere lezioso né stucchevole, con scene potentissime a cominciare da quella, da manuale, dello schiaffeggiamento dentro l'officina.
Strameritati sia il Gran Premio della Giuria che quello del pubblico come miglior film alla V edizione del festival internazionale del film di Roma (2010).

3 commenti:

  1. è sempre bello leggere le tue recensioni.
    puro godimento estetico! un piacere per gli occhi che scorrono veloci sullo schermo e per la mente che si immerge nelle tue descrizioni così efficacemente sintetiche e succose.
    una parentesi di piacevolezza ossigenante nel mare di immondizia sgrammaticata che sono costretta a sfogliare sul lavoro.

    RispondiElimina
  2. Mah.... Io non so se vorrei un padre come quello di Elias... Non sono molto d'accordo con la tua analisi del personaggio, il quale è certamente mosso da sentimenti e ideali nobilissimi....Però, nell'evoluzione che la Bier ha voluto dare al racconto, in realtà il personaggio del medico finisce per essere una figura debole, perdente, con la sua incapacità di spiegare fino in fondo ai figli cosa siano violenza e non-violenza, ingenerando in loro solo nuova rabbia e nuova repressione e lasciando inalterati i loro dubbi, le loro inquietudini di fronte alla violenza. E' un personaggio solo apparentemente positivo, secondo me, come d'altra parte tutti i personaggi della Bier ai quali la regista non lascia mai i contorni ben definiti, apposta per riuscire a svelarne le pericolose, potenziali contraddizioni. Ciao.

    RispondiElimina
  3. Come diceva giustamente mia moglie all'uscita dalla sala, questo e' un film sulla violenza. Ma e' soprattutto un film che semina dubbi nello spettatore davanti alla domanda: "come si risponde alla violenza?". Il ragazzino non puo' subire passivamente il bullismo dei compagni, denunciare la violenza non serve se l'autorita' e' imbelle, come i fiacchi professori di quel liceo. Qui sembra quindi che l'aggressione del protagonista per difendere l'amico sia portatrice di pace. Ma invece, chi esce vincitore nel confronto tra il padre e il meccanico nell'officina? Sembra che la dignita' del padre sia superiore. Ma lui stesso si fa trascinare dall'ira nell'ospedale da campo, quando vede la contraddizione tra la sua opera di medico e il male nero e profondo di chi lui stesso guarisce. Il padre alla fine e' pentito di aver permesso la lapidazione di Big Man? O forse pensa di avere fatto la cosa giusta. Se una morale deve uscire dal film, e' che non esistono leggi assolute, il mondo pone piu' quesiti morali di quante una semplice prescrizione possa racchiudere.

    RispondiElimina