L’Italia costituisce un caso di scuola del più generale modello storico-sociale affermatosi nei Paesi occidentali negli ultimi tre decenni. Tale modello si basa, tra le altre cose, sulla progressiva perdita di centralità del lavoro a tutto vantaggio del consumo all’interno di quella che già negli anni ‘60 venne chiamata la “società del benessere”. Da allora, un ruolo centrale nel determinare i percorsi della trasformazione sociale è stato svolto da quella “rivoluzione permanente dei mezzi di comunicazione” che, iniziata verso la fine degli anni ‘70 con la fine del monopolio statual-nazionale della televisione, ha cambiato in profondità i termini stessi della convivenza sociale. Ben poco di quello che è successo negli ultimi decenni è spiegabile a prescindere da questo aspetto.
Tale trasformazione ha, infatti, ristrutturato l’idea stessa di cultura – termine di origine agricola che etimologicamente sta ad indicare il lento processo di sedimentazione di un insieme organizzato di significati. È un grave errore sottovalutare la velocità e l’intensità di tale mutamento: eppure, nel giro di pochi anni il modo di produzione e circolazione dei significati non è più stato lo stesso. Basti dire che, ancora alla fine degli anni ‘70, in Italia (ma non solo) il monopolio televisivo era pressoché assoluto e che, nel giro di 15 anni, ci si è ritrovati in un mondo completamente diverso caratterizzato dall’eccesso e dall’anarchia comunicativa: la creazione delle tv private, l’introduzione della parabola, la diffusione del personal computer e di Internet hanno di fatto provocato la liberalizzazione totale del processo di circolazione di idee, immagini, suoni, cambiando alla radice il processo di produzione culturale.
È in questo contesto che si deve leggere anche la trasformazione che ha investito le democrazie avanzate (e tra queste quella italiana). Per cercare di cogliere la rilevanza di tale trasformazione basti tenere conto di un dato strutturale che viene di solito dimenticato: nel periodo che va dai primi anni ‘80 alla grande crisi economica del 2008, in tutti i Paesi avanzati dell’area Ocse si è registrata una rilevante redistribuzione di ricchezza che ha favorito una quota molto esigua della popolazione, danneggiandone la grande parte. Al di là delle pur significative differenze nazionali, a fine periodo non solo è cresciuta la distanza tra i più ricchi e i più poveri, ma si è anche registrato un notevolissimo spostamento di risorse dal lavoro al capitale: nella media dei Paesi Ocse, la quota di valore aggiunto destinata al lavoro è passata tra il 1976 e il 2006 dal 68% al 55% (e in Italia si è addirittura arrivati al 53%). A tutto vantaggio dei profitti. A poco a poco, il tenore di vita di ampi strati del ceto medio ha cominciato a calare, con prospettive negative per le nuove generazioni. La cosa che mi interessa sottolineare è che tutto questo è avvenuto in assenza di conflitto sociale. Come si ricorderà, infatti, le ultime forti tensioni sociali risalgono agli anni ‘70. Da allora, la contrapposizione sulla distribuzione del reddito è praticamente sparita, sostituita da forme diverse di conflitto, basate sul territorio, l’etnia, la razza. Ciò vuol dire che la riorganizzazione del sistema economico e la potente redistribuzione dei benefici ad essa correlata è avvenuta al di là di ogni comprensione da parte dei gruppi sociali direttamente coinvolti. In particolare, fa davvero impressione constatare che chi ha visto peggiorare – in maniera relativa e in qualche caso addirittura assoluta – il proprio livello di benessere non ha opposto alcuna resistenza, semplicemente perché non ha compreso quanto stava accadendo.
Volendo sintetizzare icasticamente quanto accaduto si potrebbe dire che si è passati dalla lotta alla lotteria: chi è relegato nelle fasce medio-basse della stratificazione sociale ha smesso di chiedere maggiore equità. Più limitatamente, ha cercato la propria personale salvezza nel “colpo di fortuna” capace di farlo accedere a quel livello di consumo e di godimento di cui beneficiano i ceti più abbienti e visibili – che sono tali proprio perché (apparentemente almeno) nella condizione di poter fare tutto quello che vogliono. Uno dei fattori cruciali per spiegare un tale fenomeno è proprio la trasformazione strutturale dei sistemi della comunicazione. Per sintetizzare tale mutamento è utile impiegare un’espressione usata prima negli Usa da J. Lull e poi in Europa da Z. Bauman. Entrambi gli autori, hanno parlato della formazione di uno “spazio estetico deterritorializzato”, cioè di una sorta di nuvola mediatizzata nella quale confluiscono le più disparate visioni del mondo, segni, simboli, significati, immagini, suoni. Tale termine costituisce un’elaborazione della “società dello spettacolo” di cui aveva già parlato alla fine degli anni ‘60 G. Debord. Il nocciolo della questione è che, all’interno di questo nuovo spazio comunicativo, non esiste più un discorso coerente, dotato di senso, una gerarchia di valori di significati che può essere riconosciuta, discussa, rifiutata. Una cultura insomma. Lo spazio estetico deterritorializzato è, invece, un insieme informe, perennemente in movimento, di immagini, impressioni, punti di vista, riferimenti culturali, stimoli sensoriali, a cui ogni singolo individuo ha direttamente accesso, senza mediazioni sociali e istituzionali e da cui può “liberamente” trarre il materiale simbolico con cui costruirsi il proprio personale punto di vista.
La logica di fondo che domina lo spazio estetico deterritorializzato è la spettacolarizzazione, che funziona secondo la logica che C. Castoriadis ha chiamato “regime della equivalenza”: ossessionati dalla nostra libertà di giudizio, tendiamo a rifiutare qualunque principio di autorità, pretendendo di poter esprimere la nostra opinione su qualunque cosa, su qualunque argomento, a prescindere dalla nostra competenza. Il che ha una inevitabile conseguenza: non disponendo di nessuna verità, se non di quella tecnica, ogni significato equivale ad ogni altro. Il che significa che tutte le affermazioni si equivalgono e che non è più possibile contestare nulla.
In un contesto di questo tipo – che diventa tanto più anarchico e patologico laddove le istituzioni pubbliche traballano maggiormente, come nel caso italiano – il senso si riduce a mero con-senso. Il punto di vista più giusto non c’è più e di conseguenza a prevalere è la posizione di colui che, essendo meglio capace di utilizzare le più raffinate tecniche comunicative, riesce a costruire una messa-in-scena convincente e a coagulare, anche se solo per un istante, l’attenzione di un’opinione pubblica disorientata. È questa la radice profonda della patologia delle democrazie contemporanee. Sotto il segno della libertà, avanza l’illibertà: la discussione diventa impossibile, il dato di fatto si impone senza tema di smentita in nome di un decisionismo privo di riferimenti. Gli stessi partiti cambiano natura, costretti come sono a rincorrere un’opinione pubblica instabile, autoreferenziale e incapace di giudizio. Aver assecondato in maniera acritica un tale processo è stato un azzardo per le democrazie occidentali, che sembrano oggi sprofondare in un nichilismo che le condanna ad una frammentazione impossibile da governare.
Una china pericolosa che, come la storia insegna, crea il terreno ideale per forme pericolose di populismo e fondamentalismo. Di fronte a tale deriva è importante impegnarsi per risanare i principi su cui la democrazia si fonda. Libertà non è arbitrio o licenza. L’idea tipicamente contemporanea che la libertà individuale è assoluta anche a prescindere dalla sua relazione con il contesto circostante mostra ormai in modo evidente tutte le sue contraddizioni. Il rischio è che, nella perdita di qualunque senso della verità, il dato di fatto pretenda automatica legittimazione. Purtroppo proprio il caso italiano è da questo punto di vista tanto interessante quanto drammatico. La deriva a cui abbiamo assistito in questi anni porta a comprendere che, tagliato ogni ancoraggio con un senso condiviso di verità che in qualche modo serve per limitare ogni forma di eccesso, la democrazia è destinata a sfiorire e a finire sepolta dalle sue stesse macerie.
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