ABBIAMO tanti difetti, noi romani, ma di sicuro non ci manca il dono meraviglioso della sintesi linguistica: una parola e tutto è chiaro, le lungaggini sono bandite, a volte persino il ragionamento viene evitato se si può stringere tutto in una sola espressione o in una battuta fulminante. I ragazzi, poi, da sempre hanno un loro privato vocabolario, costruito proprio per non farsi capire dagli adulti.
Ogni nuova generazione conia i suoi modi di dire, che appaiono, trionfano, declinano, scompaiono. E’ raro oggi trovare un ragazzetto che dica di aver avuto “strizza”, “d’aver smartito”, che una cosa “je rimbalza”, che “sta alla frutta” o a “carissimo amico”, che ha preso “na tortorata o na sdrumata” da qualcuno, che ieri “s’è tajato dalle risate”. Queste sono espressioni di dieci o venti anni fa, scolorite, dimenticate. Roba da vecchi, da quarantenni. Oggi altre parole sono sulla bocca dei ragazzi, e spesso sono parole più dure di una volta, il presente è spigoloso, sbrigativo, cattivello.
Maledetto chi “s’accolla”, va immediatamente “pisciato”, la Roma “me fomenta”, in discoteca c’è sempre qualcuno che vende “na pasta” o che “spigne er fumo”, la racchietta è addirittura “na busta de…” e non voglio scrivere cosa contiene quella busta. Forse manca il gusto per l’invenzione pura, quel giro di parole tra popolare e barocco che voleva lasciare a bocca aperta gli ascoltatori, tipo “te pijo e t’arzo pe le recchie come la Coppa Campioni”, oppure “tu sei uno che se vola no schiaffo in terrazza te fai dà le chiavi dar portiere”, “Te prenno per naso e me te porto sulla spalla come na giacchetta estiva”: costruzioni verbali da grandi architetti del romanesco. Il timore è che tutto il vocabolario, italiano e romano, si riduca a pochissime frasi di slang: pare che nei quartieri periferici di Londra i ragazzi parlino e comunichino utilizzando il cellulare con cinquanta parole. In classe leggo spesso qualche sonetto del Belli, ma nessuno lo capisce.
(da La Repubblica, 6 ottobre 2011)
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