regia: AUDIARD, JACQUES
genere: gangster
con Tahar Rahim, Niels Arestrup, Adel Bencherif, Hichem Yacoubi, Reda Kateb, Jean-Philippe Ricci, Gilles Cohen, Antoine Basler, Leïla Bekhti, Pierre Leccia, Foued Nassah, Jean-Emmanuel Pagni, Frédéric Graziani, Slimane Dazi, Rabah Loucif, Serge Boutleroff, Hervé Temime, Taha Lemaizi, Mohamed Makhtoumi, Karim Leklou, Farid Larbi, Doula Niang, Mamadou Minte, Guillaume Verdier, Mourad Frarema, Zohra Benali, Sabar Kabbouchi, Eric Badoc, François De Courcelle, Nathanaël Maïni, Charles Maestracci, Laurent Blanquet, Jean-Pierre Guinebert, Pascal Henault, Hakim Sid, Kamel Labroudi, Mustapha Benstiti, Alain Raymond, Franck Xabrame, Didier de Backer, Patrick Mochen, Gilles Bellomi, Malaïc Mekeri, Fadil Kadri, David Dupays, Arsène Benziane, Kamel Ferrat, Karim Traikia, Cindy Danel, Abdelaziz Mahtou, Alexandre de Seze, Kamel Saadi, Slim El Hedli, Farid Elouardi, Veronica Ghio
location: Francia
voto: 7
Malik El Djebena (Rahim), arabo diciannovenne semianalfabeta fragile e intelligente, fa il suo primo ingresso in carcere per scontare 6 anni. Qui impara a leggere e a scrivere e si mette al servizio di un anziano boss corso (Arestrup), per conto del quale inizia a svolgere diverse missioni che gli servono ad apprendere la dura legge della casa circondariale.
Tratto da un'idea di Abdel Raouf Dafri, Il profeta (la sostituzione dell'articolo indeterminativo dell'originale è del tutto inopportuna) è un buon film di ambientazione carceraria, un piccolo saggio antropologico sulla vita dietro le sbarre. Un po' romanzo di formazione, un po' gangster movie, un po' thriller di ispirazione tarantitiana (qui ritroviamo le didascalie macroscopiche, il gusto per lo splatter, i ralenty compiaciuti), il film di Jacques Audiard è imperniato ancora una volta (come già in Sulle mie labbra e Tutti i battiti del mio cuore) sul tema dell'impossibilità della redenzione. Anche i limiti sono gli stessi dei film precedenti: pur usando con grande scioltezza la macchina da presa e dirigendo magistralmente gli attori (Rahim e Arestrup gareggiano in bravura), Audriard dilata a dismisura il racconto (siamo oltre le due ore e mezza), che si dipana in rivoli narrativi inessenziali che potrebbero condurlo alla durata di un film di Andy Warhol e a tratti finisce col perdersi in una messa in scena cinematograficamente tanto elegante quanto compiaciuta.
Grand prix al 62esimo festival di Cannes (2009).
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