mercoledì 16 aprile 2025

The Brutalist

regia: BRADY CORBET
genere: drammatico
con Adrien Brody, Felicity Jones, Guy Pearce, Joe Alwyn, Raffey Cassidy, Stacy Martin, Isaach De Bankolé, Alessandro Nivola, Ariane Labed, Michael Epp, Emma Laird, Jonathan Hyde, Peter Polycarpou, Maria Sand, Salvatore Sansone, Zephan Hanson Amissah, Charlie Esoko, Levente Orbán, Benett Vilmányi, Peter Deutsch, Abigél Szõke, Daniel Washington, András Borgula, Zsolt Páll, Anna Mészöly, Mariann Hermányi, Nick Wittman, Robert Jackson, Peter Linka, Jeremy Wheeler, Stephen Saracco, Jaymes Butler, David Puskas, Laurent Winkler, Hermina Fátyol, Dóra Sztarenki, Natalie Shinnick, Viktor Heiczman
nazionalità: USA
voto: 8,5
anno: 2024

Fuggito dall'Ungheria nel secondo dopoguerra a seguito delle persecuzioni contro gli ebrei, l'architetto László Toth (interpretato da un Adrien Brody monumentale, giustamente premiato con l'Oscar) ripara negli Stati Uniti. Qui viene dapprima accolto da un cugino (Nivola) che poi lo allontana accampando scuse; quindi, entra nell'orbita di un miliardario (Ritchie) che vuole costruire un gigantesco centro culturale in memoria della madre, in Pennsylvania. Per László, che nel frattempo si è ricongiunto con l'amatissima moglie (Jones), quel progetto diventerà la sua ossessione, mettendolo davanti alla mostruosità del potere capitalista.
Brady Corbet firma un'opera titanica (tre ore e venti di durata) dal respiro epico. The Brutalist è uno di quei film che ritrovano l'ambizione del grande cinema americano dei maestri del passato, un lavoro palpitante che esprime senza risparmio di mezzi la potenza dell'arte in un mondo dominato da plutocrati senza scrupoli. Il gigantismo dell'opera che Toth intende costruire è infatti pari alla hybris del regista che, incurante del budget, riesce a realizzare un film che finisce per sembrare una storia vera, pur non essendolo (e con una sinistra omonimia tra il protagonista e il killer che sfregiò la pietà di Michelangelo nel 1972). Quella di Corbet, vero maverick della settima arte (obbligatorio l'accostamento, per maestosità della messa in scena, con il Fitzcarraldo di Herzog) è una parabola morale e iconoclasta sul potere corruttivo del denaro, un'opera innanzitutto politica, potentissima, che non fa sconti al sordido modo di avvicinarsi all'arte anche da parte di chi avrebbe gli strumenti culturali per accostarla.
Leone d'argento per la migliore regia alla mostra di Venezia (2024).

lunedì 7 aprile 2025

Le assaggiatrici

anno: 2025
regia: SILVIO SOLDINI
genere: storico
con Elisa Schlott, Max Riemelt, Alma Hasun, Emma Falck, Esther Gemsch, Jürgen Wink, Olga von Luckwald, Berit Vander, Kriemhild Hamann, Thea Rasche, Boris Aljinovic, Nicolo Pasetti, Marco Boriero
nazionalità: Italia, Belgio, Svizzera
voto: 6,5

È l'autunno del 1943. La Germania è in ginocchio, cibo non se ne trova. Il Führer si è trasferito in una zona in mezzo ai boschi, sul confine orientale. È lì che Rosa (Schlott), giunta da Berlino, aspetta il ritorno dal fronte del marito, rifugiandosi nella casa dei suoceri. La prossimità con il luogo dove è di stanza Hitler fa sì che - in un cortocircuito paradossale in cui il desiderio del cibo si trasforma in paura - la ragazza venga forzatamente reclutata, insieme ad altre sei, come assaggiatrice del cibo destinato al tiranno, in modo da scongiurare ogni possibile tentativo di avvelenamento nei confronti di quest'ultimo.
Da una storia vera, raccontata poco prima della morte dall'unica sopravvissuta a quella vicenda, Rosella Postorino ha tratto spunto per il romanzo omonimo dal quale Soldini ha ricavato il film. La convivenza coatta tra donne (quasi) mai solidali tra loro, molto diverse per temperamento e temperatura del sentimento patriottico era, sulla carta, un'ottima occasione per raccontare da una prospettiva inedita le atrocità del nazismo. Con mano forse eccessivamente felpata e qualche lungaggine di troppo, il regista milanese ne ricava un melò innervato da sottotrame bozzettistiche (l'intreccio erotico della protagonista con il più feroce dei militari a presidio del Führer; l'amicizia con una donna dalla falsa identità) che dilatano il racconto senza approfondirne i contorni, affidando così ad alcuni personaggi chiave ruoli che sembrano puramente ornamentali. Le psicologie di molti dei personaggi sono infatti talmente flebili da togliere forza alle dinamiche relazionali che sono la vera chiave del film. Sembra allora di fare da spettatori a qualcosa di molto simile all'osservazione delle cavie compiute dal biologo Henri Laborit, che diventarono l'oggetto di un film culto come Mon oncle d'Amérique (Alain Resnais, 1980).

martedì 1 aprile 2025

Pino

anno: 2025
regia: FRANCESCO LETTIERI
genere: documentario
con Pino Daniele
nazionalità: Italia
voto: 2

Prima regola: diffidare sempre quando l'autore, l'ideatore o il produttore di un'opera cinematografica ha la pretesa di diventare il perno del film. Succede con ogni documentario di Kusturica, è successo con Io, noi e Gaber (lì, la figlia Dalia) e accade anche in questo tributo a Pino Daniele. Qui, infatti, Federico Vacalebre, giornalista de Il mattino di Napoli, non fa che straparlare, mettersi in favore di macchina da presa, togliere proditoriamente la parola agli intervistati, a cominciare da quelli della band che accompagnò Pino Daniele negli anni di massimo fulgore, coincidenti con il concerto del 1981 in Piazza dello Statuto (De Piscopo, Senese, Esposito, Jermano). Il sodale di Vacalebre, Francesco Lettieri - qui in cabina di regia dopo il pessimo Ultras e un altro paio di boiate - ci mette del suo, creando un film nel film con l'inserimento di videoclip di livello dilettantesco (è lui il regista dei promo di Liberato) che vorrebbero raccontare - nell'economia di appena un'ora e mezza di film - canzoni come Chillo è nu buono guaglione, Napule è, Quando, O ssaje comme fa o core e Allora sì. Il che fa capire perché la prima occasione in cui si vede Pino cantare e suonare arrivi esattamente dopo mezz'ora e il primo stralcio di intervista dopo altri dieci minuti. Nel loro delirio solipsistico, Lettieri e Valcalebre fanno l'ennesimo torto (dopo lo scadente Pino Daniele - Il tempo resterà di Giorgio Verdelli) alla memoria di uno dei mostri sacri della canzone d'autore italiana, mostrando quanto l'ipertrofia dell'ego, mescidata con l'opportunismo dell'operazione commerciale (uno scarto recuperato da Alex Daniele, figlio di Pino, e consegnata ai due autori aspira a essere l'asso nelle manica), possa produrre risultati ben oltre la soglia del ridicolo.