domenica 1 novembre 2015

La legge del mercato (La loi du marché)

anno: 2015       
regia: BRIZE', STEPHANE   
genere: drammatico   
con Vincent Lindon, Yves Ory, Karine Petit de Mirbeck, Matthieu Schaller, Xavier Mathieu, Paul Portoleau, Pierre-Jean Feld, Philippe Vesco, Christophe Rossignon, Noel Mairot, Agnès Millord    
location: Francia
voto: 6,5   

A cinquant'anni suonati, Thierry (Vincent Lindon, premiato a Cannes per la migliore interpretazione maschile) si ritrova senza lavoro, con le rate del mutuo ancora da pagare e un figlio disabile a carico. La sua vita si trasforma in un'odissea fatta di colloqui di lavoro sostenuti via Skype e focus group mirati a ottimizzare la propria immagine nell'eventualità di ulteriori colloqui. Insieme a sua moglie decide anche di vendere la sua casetta mobile per le vacanze. L'unica oasi di leggerezza è il ballo. Quando finalmente riesce a trovare un'occupazione sottopagata come vigilante in un centro commerciale, prima è costretto ad assistere all'umiliazione di furfantelli e anziani che non arrivano alla fine del mese, quindi a cogliere in flagranza di reato le cassiere che mettono astutamente da parte i buoni premio (strategia che ai piani alti torna utile al fine di sfoltire il personale senza avere noie sindacali) e infine a testimoniare contro una di esse, rea di avere strisciato la propria carta fedeltà al posto dei clienti.
Fedele (fin troppo) alla poetica impegnata dei fratelli Dardenne, il film del semiesordiente Stéphane Brizé ne sposa anche lo stile, con il ricorso a molti attori non professionisti, lunghe inquadrature fisse che si alternano alla macchina a spalla sempre a ridosso del protagonista (anche quando fa da semplice spettatore alla scena), assenza di colonna sonora e dialoghi fittissimi. L'operazione, però riesce fino a un certo punto: se sul piano dei contenuti La legge del mercato è un film ineccepibile, addirittura necessario per come riesce a raccontare lo spaesamento della disoccupazione in età avanzata e inquadrabile in quel cinema di impegno sociale di cui Ken Loach è una delle punte più avanzate, sul piano della forma e della scrittura convince meno: sia per la scelta di fare ulteriormente leva sul sentimentalismo dello spettatore, affiancando al protagonista un figlio portatore di handicap, senza che questo abbia alcuna funzionalità narrativa, sia per l'indugiare quasi compiaciuto sui tempi del racconto, come in una scena del ballo di durata spasmodica. Ma la scena del tele colloquio e quella dell'addestramento al curriculum rimangono scolpite nella memoria per l'iperrealismo con cui riescono a rappresentare la mercificazione del lavoro umano all'interno di un'opera complessivamente asciutta e piuttosto fredda.    

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